MIRKO CONFALONIERA

  1. NAPOLI EXPRESS
    Vomero, Chiaia, Castel dell'Ovo, Centro Storico, Mergellina

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    VERSO SUD
    By Liutprando il 10 Oct. 2017
     
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    golfo

    1 – Il risveglio è dolce. E’ come passare da un sogno all’altro, cullati dall’impercettibile dondolio del treno che sta rallentando. Non mi ricordo quando mi sono addormentato. Ma mi ricordo cosa stavo sognando. C’erano campi e distese di verde, poi una città. La raggiunsi, con amici che non sono più nella mia vita ma che hanno preso strade diverse. Una strada, palazzi, una ferrovia a binario unico, un fiume in lontananza, i colori dell’autunno sopra ogni cosa, a perdita d’occhio. Un gran senso di pace. Che non è nella mia vita. Un rimpianto, perduto in Est Europa, lontano, irraggiungibile come un’alba. Una quiete dolce e tenera che riesce appena a strapparmi un sorriso.
    Apro gli occhi lentamente. Enormi grattacieli di cemento e di cristallo. Svettano oltre la ferrovia e i tralicci dei fili elettrici. Li osservo come se per la prima volta vedessi dei giganteschi e mastodontici colossi che padroneggiano un paesaggio fatto di acciaio, catrame, asfalto e nuvole grigie intrecciate fra loro in un aiuola di cielo. Lo scioccante e abbagliante Centro Direzionale di Napoli. E tutto alle spalle la megalopoli che si arrampica verso i Colli Aminei. E ancora tutto attorno la Napoli vecchia, cuore pulsante di una megalopoli che si estende eterogenea dal mare alla montagna, dal vecchio al nuovo, dalla litoranea di Pozzuoli alle pendici del vulcano Vesuvio.
    Napoli Centrale. In perfetto orario. Anzi, con qualche minuto di anticipo. L’Italo ha volato, letteralmente, sulla terra italica, correndo a 300 km/h sulle linee dell’alta velocità che collegano Milano con Bologna, Firenze, Roma, e poi la Campania. Quattro ore per percorrere i 763 chilometri di distanza dalla stazione di Rogoredo. Quattro ore, seduto accanto a un finestrino, di pensieri, di ricordi, di perché, di chissà, di se, di ma.
    Un sole caldo fa breccia improvvisamente fra le nuvole grigie. Si alza il sipario e Napoli mi appare in scena come se mi stessi incamminando lungo un gigantesco sipario vivente. Mi avvio verso la Metropolitana: si scende con imponenti scale mobili che sembrano sospese nel vuoto in una voragine senza fine. Linea 1, la “gialla”, che collega, per ora, Piazza Garibaldi (accanto al terminal ferroviario) con Piscinola (Scampia) – è in costruzione un prolungamento verso nord-ovest che farà di questa linea una circolare perfetta. La “1” corre nelle viscere di Napoli, sale sulle alture del Vomero, sembra arricciarsi a spirale su sé stessa fra Salvator Rosa e Medaglie d’Oro, e incrocia altre strade ferrate: la metro-ferroviaria da San Giovanni Sbarra a Pozzuoli, le funicolari nei pressi di Vanvitelli, che portano giù, verso Montesanto (dove si prende la Circumflegrea) oppure verso Chiaia e Mergellina, la linea 6 e la Cumana per Torregavetta.
    «Napoli è come New York! – mi dirà questa sera Jeanne, la mia editrice, alla libreria Mondadori – Puoi girarla da cima a fondo, quartiere per quartiere».
    Con lo stesso biglietto (il giornaliero, che vale fino a mezzanotte, e che costa 3,50 euro) si prende la metro, il treno, le funicolari, e le ferrovie private. Si sale, si scende. Sottoterra o in superficie. In carrozza o nella cabina di una favolosa e affascinante funicolare. Scoprirò presto che spostarsi coi mezzi pubblici per Napoli è una meravigliosa giostra dalla quale non vorrò più scendere, come quando un bambino piccolo per la prima volta viene portato al luna park di paese.
    Stipato contro le “sliding doors” dalla calca degli studenti riesco a scendere a Montedonzelli, la mia fermata. Quartiere Vomero, uno dei più belli di Napoli, mi hanno detto. Percorro via Castellino, seguendo il leggero declivio che la strada si concede verso sud. Sui muri delle case e dei palazzi scritte d’amore e di passione calcistica. Camminando per le vie della città, mi accorgerò dai murales e dai dipinti che Napoli vive di tante passioni e poche razionalità: San Gennaro, Maradona, il Sacro e il Profano, in mezzo Totò, Pino Daniele, Nino D'Angelo, Massimo Troisi, e tutta la grande Leggenda.

    2 – “Maradona è meglio ‘e Pelè / ci hanno fatto ‘o mazz’ tant pé ‘ll ave’! / Maradona facce sunnà / nu scudetto puortancill’ ‘a parte ‘e ccà… / Maradona ‘o ttene e t’ ‘o ddà / te scamazza te mbriaca e va a sianà / Maradona si’ Napule già / tu si’ ‘a chiave ‘e ll’acqua pe ce fa campa’…” (coro dei tifosi napoletani anni ’80).
    B&B “La Dimora” di via Castellino. Gestito da madre e figlia. Simpaticissime. Mi accolgono subito come se fossi un vecchio amico di tempo che non vedono da anni: in un battibaleno passiamo a darci del Tu e a raccontarci un po’ dell’uno e degli altri. Chi sono, cosa faccio, perché sono a Napoli, un week end di vacanza opppure di lavoro?
    «Sono a Napoli perché sono una “specie” di scrittore; e stasera alle sei presento alla libreria Mondadori di Piazza Vanvitelli i miei due ultimi romanzi» rispondo sinceramente.
    Voilà! Sinceri complimenti, in bocca al lupo, e di qua e di là, esse sono grandi lettrici, vogliono sapere di cosa trattano i miei libri e allora estraggo una copia di “Badlands along Po river” (2015), il primo della saga, che promettono di leggere e di tenere nella libreria in corridoio, dove ci sono un sacco di libri un po’ più noti dei miei ;-)
    «Così te lo leggeranno anche gli altri ospiti!» dice la madre sorridendo.
    Leggendo la sinossi e carpendo che il libro ha come sfondo il tema del cambiamento e del coraggio di cambiare, andiamo subito sul Tema classico dei grandi cambiamenti della vita (a fine di quel romanzo il protagonista, Paul – uno che un po’ mi assomiglia ma che GIURO e SPERGIURO non sono io… ;-) - molla tutto e parte per la Romania per stare insieme al suo eterno amore Daniela… Un finale molto poetico e sognante, che solo un eterno preso male come me poteva vanificare e annullare con il seguito “Badlands: Rules of Game” (2017), confutando l'happy ending summenzionato e partendo con Paul che torna in Italia con le pive le picche nel sacco…. Nda).
    Il lavoro e la vita, due elementi purtroppo indissolubili nella società in cui viviamo. Le due donne mi raccontano, così, che anche loro hanno avuto il coraggio di cambiare: di mollare quello che facevano prima (un lavoro stipendiato da quanto capisco) per aprire un B&B al Vomero. Touché. Il mio Paul Botta resterà forse un eroe di carta, perché almeno ci prova a mollare tutto e a inseguire il suo amore est-europeo; ma persone come quelle che ho di fronte, che hanno azzardato la difficile scommessa di rimettersi in gioco, in tutto e per tutto, sono vere eroine moderne del nostro tempo.
    Restiamo a parlare che sono mezzo pugliese, per cui per molti aspetti preferisco il Sud rispetto al Nord, soprattutto per la qualità dei rapporti fra le persone. Si ride, si scherza, ma fra le righe escono di quelle verità talmente profonde e veritiere che come al solito mi colpiscono in contropiede e come al solito mi fanno sprofondare in tanti pensieri... Forse questo non è il mio Sud, ma è come se lo fosse. E’ sempre quel Sud che da quasi 42 anni mi circola nelle vene, dal cuore fino alla testa; e niente, non c’è nulla da fare, è così: ogni Sud è forse diverso, ma alla fine è sempre lo stesso. Cinque mesi fa sono stato in Sicilia (cfr. “La Freccia del Sud”). Era un “altro” Sud anche in quella occasione, così diverso, distante, culturalmente e chilometricamente… Eppure, sotto sotto, così simile alla Puglia, pardon, alla “California d’Italia”, che spesso su questo blog ho decantato (cfr. “Adriatic Road”) in ogni suo minimo aspetto.
    Anche Napoli, man mano che passa il tempo, sta assumendo i surreali contorni dello mio stesso senso di “Sud”.

    3 – Di fronte al B&B c’è una rosticceria che si chiama “Jesce Sole”. Fantastica: menù fisso, sia a pranzo che a cena a soli 6 euro. Arrivo che sono quasi le quattro (perché fra una cosa e l’altra, si è fatto tardi e io non ho ancora pranzato!), e chiedo gentilmente se posso ancora usufruire del pranzo turistico. "Certamente", mi risponde il cortese pizzaiolo dietro il bancone. Il locale ha una piccola verandina esterna, dove, al mio arrivo, un gruppo di ragazzi stanno discutendo di calcio bevendo birrette da 0.33; al suo interno, oltre all’ingresso dove ci sta la vetrinetta degli alimentari, il frigo delle bevande e il forno per le pizze, c’è una contigua stanza ampia e capiente, dove sono disposti vari tavoli e sedie. Due enormi vetrate danno sulla via Castellino, trafficata come non mai.
    Per l’irrisoria cifra summenzionata mi offrono un tegamino di pasta al forno, una fetta di frittata di melanzane e per contorno pasticcio di verdure. Birra Peroni gelata come il fiume Volturno d’inverno per dissetarmi.
    Non mi accomodo nel salone grande. Mangio il tutto seduto a un tavolino posto proprio davanti alla vetrata principale. Quando viaggio mi piace SEMPRE guardare la Strada davanti a me. Le Strade sono imporanti. Quasi come il cibo. Sono il Cibo per la Mente. Le strade portano ovunque, non solo a Roma, ma dappertutto. Sono le vie di fuga dalle ansie e dallo stress quotidiano. Ma sono anche vie di Vita. Vite che raccontano di esseri umani, con le loro storie, i loro pensieri, le loro speranze. Guardare il formicolio di una strada, il via vai di auto, di pedoni, di bus, di biciclette, lo trovo meglio di guardare un film al cinema. Il miglior film è la Vita. E la Strada è il più bel palcoscenico che mi racconta questi grandi Romanzi. Ecco, perché, io nei miei viaggi percorro le strade statali. Sotto la fiera algida etichetta dell’ #iononviaggioinautostrada. Resterei ore a guardare la vita che mi scorre davanti lungo ogni singola strada che percorre o incrocio. Storie, storie, tante storie, raccontate ogni giorno da ogni faccia, ogni camminata, ogni sguardo. Vorrei scriverle tutte, ma non ho tempo. Alle sei ho la presentazione dei miei libri alla Libreria Mondadori di piazza Vanvitelli, e per le cinque / cinque e mezza ho l’appuntamento con Giò, che stasera mi farà da relatore nella mia prima ed epica presentazione letteraria nella “grande mela” di Napoli.

    4 – Vanvitelli è una graziosa e piacevole piazza. Le pareti dei palazzi che la circondano con l’intersezione di due strade perpendicolari formano un ottagono perfetto. E’ un formicaio di persone che vanno e che vengono, che scivolando fra negozi, caffetterie, locali. C’è la fermata della Metro, c’è la stradina che sale a Castel Sant’Elmo, e soprattutto per me c’è la Mooks Mondadori Bookstore. Una scaletta di ingresso conduce in un sotto-piano adibito a libreria. A lato della porta, e anche di fronte, dove c’è un piccolo spazio esterno arredato con tavolini e gazebo, ci sono locandine recanti il mio nome e la copertina di “Badlands: Rules of game”. Fa un certo effetto, essere a quasi 800 km da casa e vedersi il proprio nome e la propria opera così, alla mercé di tutti i passanti distratti. Stampato a caratteri cubitali, risalta la foto di copertina – scattata un pomeriggio di aprile in riva al fiume Po nei pressi di Pancarana – come lo sfondo di un sedicente thriller / noir / hardboiled “padano-texano”, come amo definirlo io.
    Giò mi avvisa via whatsapp che arriverà con una decina di minuti di ritardo. Così ne approfitto per dare un’occhiata attorno: la piazza sembra un salotto, affollata di abituali visitatori-abitanti che vanno e che vengono, come da una camera all’altra di una gigantesca casa senza tetto. Boutique di abbigliamento, sportello per un noto marchio telefonico, una farmacia, una banca, palme, tendoni, ombrelloni. Il pavimento piastrellato di sampietrini, al centro un’aiuola con un grosso albero e un paio di cespugli. Macchine e bus che corrono impazzite, nel dolce caos di un venerdì pomeriggio, anticamera di un fine settimana cittadino.
    Ecco che un giovanotto alto e massiccio finalmente mi viene incontro sorridente. E' lui. Stretta di mano, due chiacchiere di presentazione e poi ci sediamo a uno dei tanti tavolini che decorano quell'angolo di città. Ordiniamo rispettivamente un caffè lungo e una Tassoni con ghiaccio. Io, purtroppo, sono solito allungare il caffè nella tazzina con qualche cucchiaino d'acqua. Giò osserva e non apprezza. Rabbrividendo mi squadra e mi fa:
    «Ma che stai facendo?»
    Lo guardo sorridendo: so già cosa un napoletano vuole dirmi davanti a chi violenta così un'altra cosa che per Napoli è sacra: il caffè.
    «Eh… Io sono abituato a berlo così…« ammetto.
    «Ma bere così il caffè è un sacrilegio!» e giù a sgnignazzare.
    Mentre il tempo passa soffice, cullato dal dolce caos di passanti, ripassiamo le domande che Giò mi farà durante la presentazione. Anche se le abbiamo stampate su alcuni fogli, che terremo sul tavolo in modo da suggerire botta e risposta.
    «Guarda che sarà una presentazione molto veloce: non verrà anima viva!» dico sconsolato.
    «Ma no? Perché dici così?»
    «Perché sono un autore non-professionista, che viene da 800 chilometri e qui non mi conosce nessuno...»
    «Ci voleva mio zio, è un peccato che non sia venuto…»
    «Ha avuto un impegno di lavoro all'ultimo! -spiego, mandando giù l'ultimo sorso di caffè- Altrimenti ci sarebbe stato…»
    Giò comincia a parlarmi dei suoi studi in medicina, che volgono al termine, e che sta preparando la tesi di laurea. Sembra un argomento molto interessante, anche per un neofita come me. Lo ascolto interessato, ma al momento clou arriva Jeanne, la mia editrice.
    E' una bella donna sui cinquant'anni, vive nei pressi di Caserta, ma conosce Napoli meglio di ogni guida turistica. All'inizio sembra una splendida Audrey Hepburn che cammina in mezzo al flusso ininterrotto di gente. Poi, la osservo meglio: indossa in testa un mint & berry nero a tema con i suoi capelli scuri, ma corti; un tailleur femminile che si sposa con la gonna stretta e appena stretta sopra le ginocchia; occhiali neri, ma un sorriso brillante, come gli orecchini e gli anelli che completano il suo abbigliamento. Ci viene incontro riponendo il cellulare nella borsetta. Ha la stessa espressione della prima volta che la conobbi, a Milano, qualche mese fa, durante una presentazione di alcuni autori della zona. Allora ci incontrammo in una raffinata maison d'art: restai subito colpito dalla sua personalità, forte e cordiale, sicura e dolce.
    «Ti stavo telefonando, non ti ho visto giù in Libreria!» sono le prime parole.
    Poi seguono gli ovvi convenevoli, le presentazioni di Giò, e due chiacchiere su come si svolgerà la presentazione. Ha un minuto per chiedermi, al di là di quel comune impegno di lavoro, quanto tempo mi fermerò a Napoli.
    «Fino a domenica mattina», rispondo.
    Non è molto, me ne rendo conto anche io, ma può essere abbastanza per vedere qualche cosa di carino. A Napoli ci sono stato altre due volte in vita mia. La prima durante una gita scolastica nel lontano 1993: ma fu una toccata e fuga, poiché l'albergo ce l'avevo in Costiera Amalfitana e a Napoli - a parte arrivarci in treno e ripartirci con gli allora mitici espressi notturni - ci stetti una sola giornata e mi ricordo ben poco: il resto dei giorni li passai a vedere la reggia di Caserta, i resti di Pompei e qualche museo di non-so-più-ché di Amalfi. La seconda volta, invece, fu qualche anno fa, nel 2010, mi pare: mi trovavo in Puglia, durante un ponte lungo per un 1 maggio, e con alcuni amici pugliesi organizzammo due macchinate alla volta della città partenopea. Fu un'esperienza già più ricca e dignitosa, ma ancora incompleta. Ecco perché il mio forte desiderio di unire una presentazione di un libro al di fuori dei confini provinciali di Pavia con un fine settimana in una città, Napoli, che volevo da tempo ripassare e rivedere meglio.

    5 – La presentazione nella Sala maggiore della libreria Mondadori scivola via in maniera formale e amichevole, proprio la volevo. Io e Giò siamo come due amici che parlano dei miei ultimi romanzi: lui mi chiede, io rispondo, come si fa fra due persone sedute a un tavolino di un bar chiacchierando del più e del meno. Su un gigantesco monitor alle nostre spalle, intanto, sfilano le immagini dei documentari “Badlands”, che ho girato fra il 2013 e il 2014: sono video-filmati di viaggi on-the-road, che ho percorso costeggiando il fiume Po da Pavia fino alla sua foce in Polesine. Un'esperienza dalla quale è nato proprio l'idea di fondo del primo “Badlands along Po river”; ovvero, almeno l'idea iniziale, prima che il libro (e il successivo sequel) scivolasse in una trama noir e hard-boiled di pura immaginazione. I cortometraggi si trovano facilmente su internet, e soprattutto nel secondo e nel terzo episodio credo, o almeno spero, di aver messo bene a fuoco i paesaggi e gli scorci del Delta del Po e dell'intera Val Padana: luoghi dove i miei due thriller sono ambientati, cercando di trasportare alcune atmosfere alla Joe Lansdale da quelle texane alle umide “badlands” della Padania di provincia: quella che d'estate, secondo me, si adatta molto alle ambientanti nel vecchio Sud, fra campi di grano, bottiglie di birra, redneck di paese, risse, pestaggi, scene di sesso, e ovviamente squilibrati assassini che se ne vanno in giro a diffondere il loro Credo... Per non “spoilerare” di più, vi rimando, ovviamente, all'acquisto e alla lettura dei due libri in essere ;-) .
    Alla presentazione ci sono ben sette persone. Jeanne è un po' delusa. Io, invece, dico BEN sette, perché non me ne aspettavo manco una. Lei si aspettava che muovessi un po' più le acque fra amici di amici; io ribatto che è molto meglio presentare un libro a sette perfetti sconosciuti, piuttosto che ad amici di amici, di conoscenti, di parenti, di biscugini laterali, ecc. Ma Jeanne non si rassegna, e propone subito un'altra presentazione a Caserta, dove c'è la sede della Casa Editrice e dove mi promette che l'aula sarà piena. A gennaio potrebbe andar bene, visto che potrei trovarmi in Puglia per quel periodo, e per cui dovrei solo attraversare gli Appennini Dauni per tornare in Campania.
    Dopo aver concluso la presentazione e aver risposto anche a un paio di domande che qualcuno del pubblico mi rivolge in maniera genuinamente interessata, rompiamo le righe. Giò scappa verso il venerdi sera e il fine settimana ormai alle porte e improcrastinabile come una scadenza imminente. Ringraziamenti di cuore, da parte mia, per l'aiuto e l'essenziale collaborazione.
    Restiamo soli io e Jeanne per un po', così facciamo due passi per il cuore pulsante del Vomero, che si è letteralmente trasformato nel frattempo. Il buio è calato sulla città, le luci si sono accese a notte, e l'aria si è fatta come più frizzante e sognante. Camminiamo fra la gente sui marciapiedi come danzando fra farfalle sui fiori.
    Jeanne mi porta in un'altra libreria lì vicino. Si chiama “Io ci sto”. Mi spiega che è una libreria sociale, dove la Casa Editrice aveva lasciato, anche lì, un paio di copie dei miei libri. Entriamo e andiamo a cercarli. Nella sala principale c'è in corso una presentazione. L'aula è piena e l'autrice sta intrattenendo in maniera molto interessata tutti i partecipanti.
    «E' un'autrice locale -mi spiega Jeanne- Vedi quanta gente? A Caserta sarà così!»
    Raggiriamo scaffali e librerie. Raggiungiamo quella dove su uno stesso ripiano stanno i libri degli autori della MR. Cerchiamo le mie copie, ma non ci stanno.
    «Non ci sono… Le hanno prese, le hanno vendute!» commenta, girandosi con un sorriso malizioso e beffardo. E' quasi più entusiasta lei di me.
    La guardo e ammiro il lavoro che fa. Davvero. Perché non è per nulla facile. E l'ho pure riconosciuto e ribadito in pubblico poco fa, durante la presentazione alla Mooks Mondadori, davanti a tutti.
    Nonostante, sottolineo “Nonostante”, lo scherzetto, proprio davanti a tutti, e senza preavviso, che Jeanne mi aveva tirato:
    «Come mai le donne nei tuoi romanzi hanno sempre un ruolo negativo?»
    La classica domanda che non ti aspetti e che ti spiazza come se in un derby stai giocando meglio ma hai preso appena gol dalla squadra avversaria. Sorrido, fra l'isterismo di chi è colto di sorpresa e la faccia di tolla di chi prima o poi si aspettava una domanda del genere. Anche se viene dalla propria Editrice. Colei che in caso di ipotetico attacco da parte di feroci femministe mangia-uomini-cattivi dovrebbe aiutare a difendermi.
    «No, non è vero, le donne non hanno un ruolo negativo nei miei romanzi….»
    Alle mie spalle un paio di ragnetti immaginari scricchiolano un po' rumorosamente con le zampettine sul vetro dello schermo del 42 pollici…
    «Sì, sì, invece -e rincarando la dose, aggiunge pure: - CI descrivi sempre in maniera negativa!»
    Ho già detto che il pubblico presente è formato da SEI donne e da un ragazzino? Perfetto.
    «Il personaggio di Daniela è la prova dell'esatto opposto!» confermo.
    «Chi è Daniela?»
    «Un personaggio di fantasia...» balbetto; mi accorgo che non ci credo neppure io, figuriamoci chi mi sta ascoltando.
    «Ah sì? Prendi un attimo a pagina 37 e leggi!»
    Odio i fuori programma. Sono un tipo meticoloso, che ama programmare il tutto nei minimi dettagli: domande, risponde, se potessi programmerei perfino le domande che il pubblico può e quelle che non può farmi.
    Ma con Jeanne avevo dubbi che la cosa poteva filare liscia come l'olio?
    E niente, mi costringe a leggere ad alta voce tutta pagina 37. Tutta la pagina in cui il protagonista Paul in un flash back incontra per la prima volta la sua bella Daniela, alcuni anni prima degli eventi narrati sia nel primo che nel secondo romanzo. E se ne innamora come uno scemo, il Coglione!... Lasciandosi andare a parole, pensieri, di tutto, di più…
    “La Prima volta. C'è sempre una prima volta. Per tutto. Siamo noi che ci illudiamo spesso che le cose vengano reiterate da sempre. Senza mai ricordarci la Prima volta di ogni cosa... La prima volta che incontri una persona… La prima volta che ci parli… La prima volta che ti innamori di lei……. C'era l'inverno. C'era la luna. E c'era una notte tutta sopra di me. Un bar da qualche parte nelle badlands lungo il fiume Po, un gennaio andato lungo le pagine di un calendario, una sera di stelle nel cielo e di pensieri nella testa. Un gruppo di amici (allora molto più numeroso di oggi), una birra sul tavolino, una sigaretta appena fumata e appena gettata via. C'era il freddo che penetrava le ossa, c'era una coppia di fidanzati al tavolo accanto che sorridevano, scherzavano, si abbracciavano, si baciavano. C'era lei che mi servì da bere, e un sorriso, e come ti chiami, e posso avere il tuo numero di cellulare. E c'era un mio SMS già pronto nella mia testa che le avrei spedito appena rincasato... Il mio rumeno un po' maccheronico da unu a zece, da cine esti a avea, da dreapta a stanga... E io ero lì, che guardavo quel piccolo mondo girare attorno, la notte che passò, i giornali gettati distrattamente sui tavolini che parlavano di Putin, della guerra in Cecenia, di da, di spasiba, di dasvidania, di tovarisc, di niet... E io scioccamente pensavo solo se il Torino ce l'avrebbe fatta a salvarsi in serie A, con chi mi sarei preso una sbronza o a cazzotti, e quale nuova ragazza mi sarei portato a letto... Ma senza saperlo, appena conosciuta, appena tornato a casa, tronfio per la conquista di un numero di cellulare, mi mancò già stranamente da morire. Non era come tutte le altre volte. Non possedevo niente, allora come oggi. Non avevo castelli, né regge, né reami. Non avevo terre, né boschi, né case, né palazzi. Non avevo nulla, a parte un cuore in petto, pieno di ideali, forse sbagliati, forse no, ma che sarebbe battuto ogni giorno e ogni notte solo per lei: al suo pensiero, ad ogni incontro, sorriso, abbraccio, amore, saluto, pensarla, amarla, aspettarla. Glielo porsi in pegno per lunghi anni, quel rosso cuore che batteva, perché era l'unica cosa che potevo realmente offrirle. Le dissi che le apparteneva e per sempre le sarebbe appartenuto, poiché nessun'altra donna al mondo oltre a lei poteva mai ambire ad averlo...”
    Com'è duro fingere. Quando vuoi fare lo scrittore, ma non tutto quello scrivi è frutto della tua fantasia.
    Ma è la tua Vita...
    «Quanto c'è di realmente accaduto in questa pagina?»; ora il suo sorriso è talmente pungente che mi sfoglia a me come un libro.
    Resto a fissarla senza sapere cosa ribattere, se non scuotere il capo e porgerle un ingenuo sorriso di chi si è appena sentito fare “tana” a una partita di nascondino…
    Che donna, Jeanne! Una delle migliori che avrei mai potuto conoscere! Non c'è dubbio!
    Il lavoro che fanno i piccoli editori, sbranati e soffocati dalla Grande Editoria, non è affatto facile e merita un riconoscimento… Scrivere un libro, alla fine, per me che sono un autore è una cazzata, diciamo la verità, almeno fino a quando non diventa una Professione, ma quello è un altro discorso: scrivere è la mia Passione, che ci vuole? M metto seduto davanti al mio PC portatile, butto giù quello che mi passa per la testa, e attraverso pensieri, ricordi, sensazioni, delusioni, ecc., tesso le trame di un giallo, oppure di un noir, oppure di un dramma. Ci vuole solo un po' di tempo libero e nulla più… Ma pubblicare, distribuire, organizzare... Quello è il Lavoro della vita, è il lavoro per il quale molti hanno lasciato altri impieghi, magari più sicuri, per ricorrere quell'ideale. Fare lo scrittore è facile. Fare l'editore, oggi come oggi, è lodevole. E io lo apprezzo sinceramente.

    6 – Dopo aver salutato anche Jeanne, che torna nella sua Caserta, inizia ufficialmente il mio week end napoletano. Messo alle spalle l'impegno “culturale” prefissato alla Mooks di Vanvitelli, sono ufficialmente un turista e inizia la parte più bella del viaggio: scoprire Napoli e raccontare cosa mi lascerà dentro.
    Dopo un veloce rientro al B&B per una rinfrescata e una doccia, ridiscendo stavolta a piedi verso il cuore pulsante del quartiere Vomero, non prima, tuttavia, di aver fatto il bis alla rosticceria “Jesce Sole”. Giro un po' per le vie della zona, alcune pedonalizzate, altre no, ma si cammina bene. Mi arrampico fino a Cimarosa e Piazza Fuga, da dove partono le discese per il centro della metropoli. Che però aspetterà domani. Google Maps del mio cellulare mi segnala in zona un interessante locale dove fanno musica dal vivo. Al mio arrivo, tuttavia, vedo solo un locale vuoto, la saracinesca abbassata e il cartello “Vendesi”. Peccato. Una serata live-music al Vomero sarebbe stata la ciliegina sulla torta. Ma non mi scoraggio, ripiego velocemente per una birreria artigianale scovata sempre fra le indicazioni di Google. Passo casualmente per Piazza Quattro Giornate, dove si erigono ancora in maniera massiccia le tribune dello Stadio Arturo Collana, impianto che ha ospitato le partite casalinghe del Napoli Calcio fino agli anni Cinquanta.
    Il “Murphy' s Law” sorge in una traversa della piccola e graziosa Piazza degli Artisti. Ho letto su internet che d'estate la piazzetta rotonda è molto frequentata da giovani e meno giovani: ci si può sedere fuori ad uno dei tanti baretti che la circondano e prendere un bel caffè, gustandoti mostre di pittura al bar Nea o all'aperto. C'era passato prima, scendendo a piedi da via Castellino e mi ero fermato casualmente proprio al Caffé degli Artisti a bere un amaro: un chioschetto che sorge in un angolo della gigantesca rotonda e che sul davanti si presenta con una bella veranda ornata di tavolini e belle ragazze con tazze di thè e discorsi sul futuro e sulla vita che verrà.
    Il “Murphy's”, invece, è completamente diverso. E' il classico pub-birreria vecchia maniera. Si entra da un ingresso di colore verde-rosso, ornato dalle classiche lanterne a muro. L'anticamera è uno stretto cubo di pochi metri: ci sono solo una porticina sulla sinistra che comunica con la cucina e una scala a chiocciola in legno che scende al piano di sotto. Giù si aprono due ambienti, ma comunicanti fra loro: nel primo c'è il bancone principale, qualche tavolino e poche sedie lungo le mensole e il banco; nel secondo, invece, grossi tavoloni sono disposti in lungo e in largo per accogliere le tante persone che ci sono a quest'ora.
    Sembra un po' il baraccio di Baku che trovai per caso avventurandomi quella notte di due anni fa fra le vie, il traffico, il caos e la forte pioggia mista a vento che battevano sulla capitala azzera. Non mi scorderò mai quel tempaccio, e soprattutto il perché mi trovavo lì: ero alla fine di quel lungo viaggio on-the-road da Ankara fino alle coste del Mar Caspio (cfr. Caucasian Trip). Stanco, esausto, affamato e con pochi soldi rimasti sulla carta Visa prepagata; e, tuttavia, in una di quelle notti bakuniane conobbi Sabine, una bellissima ragazza caucasica, che era solita con amiche frequentare il locale. Bevemmo un sacco insieme e parlammo del più e del meno tutta la sera fino a tardi. Quando notai una certa complicità negli sguardi e nei modi di fare, e un po' di alcool scorreva nelle mie vene, una bella botta di coraggio e di audacia si impossessarono di me; così le chiesi se volesse venire nella mia stanza d'albergo. L'illusione dello "yes" che ricevetti durò pochi secondi; i successivi chiarimenti (che dovevo darle “80 Manat”, che quello era il suo “job” e che fuori magicamente già ci aspettava un taxi con il motore acceso...) smontarono e uccisero la mia illusione di essere riuscito per la prima volta in vita mia a conquistare e sedurre una stra-figa dell'Est senza dover chiedere le due paroline magiche: “How” e “Much”….
    "Niet!", come si dice in russo, pardon, in sovietico. E' più facile che il mio Torino vinca una finale di Champions League, piuttosto che una bella ragazza si interessi a me anche solo per una notte.
    Stasera sono a Napoli, invece, distante almeno 4 mila km da Baku. Non piove, non tira vento, ma, al contrario, è una bellissima notte mediterranea di fine settembre; non ci sono donne accanto a me e forse è meglio così...
    Riesco ad accomodarmi ad un tavolino nella seconda stanza vicino al frigorifero delle birre artigianali. Posizione un po' scomoda, dato che almeno un paio di volte una cameriera viene a prelevare delle bottiglie e mi devo leggermente scansare per permetterle di aprire lo sportello del frigo. Ma dalla mia posizione si domina tutta il locale, anche la prima stanza, grazie a una finestra nella paratia che comunica direttamente col bancone. Altri frigoriferi, barilotti per le spine, e aforismi divertenti, tratti dal compedio umoristico “La Legge di Murphy” (che dà il nome al locale, nda), ornano le pareti del locale. La varietà di birra offerta è davvero stupefacente. Una grossa lavagna appesa al muro appena di fronte alle scale descrive ogni qualità di prodotto.
    Ordino una birra media non fermentata del birrificio Sorrento. E' buona e dissetante, ma l'ho presa soprattutto per la forte identità territoriale. Mi piace sostenere la produzione locale, anche a sacrificio della qualità stessa. Comunque il problema non si pone, la “Sorrento” è buona e va giù molto bene. Forse un po' in fretta. Ma si è già fatta una certa ora e domani mi aspetta Napoli per essere visitata. Così, lentamente, mi alzo, mi avvio alla cassa, pago, esco dal locale e mi incammino verso il B&B di Montedonzelli.
    E ripenso ancora a quella beffarda avventura in quello scantitato-pub di Baku di due anni fa…

    7 - “Napule è mille culure / Napule è a voce de' criature / che saglie chiane chiane / E tu sai ca nun si sule / Napule è nu sole amaro / Napule è addore 'e mare / Napolu è na carta sporca / e ninsciuno se ne importa / e ognuno aspetta a 'ciorta...” ("Napule é", Pino Daniele, EMI; 1977).
    Sabato mattina e Napoli, anzi, Vomero, si sveglia come tutti gli altri giorni. Il traffico incessante di via Castellino, che scende da Montedonzelli verso piazza Medaglie d'Oro. Le saracinesche dei bar e dei locali di nuovo alzate, le persone che camminano, che parlano fra loro, che sono ferme ad aspettare il bus. E' una bella giornata di sole e a differenza di ieri non c'è una nuova in cielo.
    Raggiungo Vanvitelli in metrò. Sono solo due fermate e ieri sera me la sono fatta a piedi sia all'andata che al ritorno.
    Da Vanvitelli a Cimarosa la strada è dritta, si passeggia nell'alberato viale Gian Lorenzo Bernini. Di fronte c'è la stazione di una delle tre principali funicolari: quella di Chiaia, che scende giù verso Parco Margherita. Andando a sinistra, verso la seconda funicolare, quella di Piazza Fuga, ieri sera Jeanne mi ha fatto vedere la "Friggitoria Vomero", uno degli storici locali più importanti del quartiere, dove si può assaporare le tipica pizza fritta e altri cibi classici di frigittoria napoletana.
    Entrare nella piccola funicolare della Chiaia, invece, è come fare un passo indietro nel tempo. La cabina, agganciata a una fune metallica, scende e risale i due binari che sembrano precipitare nel vuoto. L'interno percorso è, tuttavia, al chiuso, perciò non si riesce ad ammirare lo skyline di Napoli dall'alto. Effettua due fermate intermedie, prima di arrivare al capolinea di Parco Margherita, nei pressi di Piazza Amedeo. All'uscita noto che il dislivello che abbiamo disceso è ancora più notevole. Napoli è davvero una sterminata metropoli che si innalza dal mare alle alture dei colli circostanti. Ma questa cosa, poi, la noterò meglio nei pressi di Mergellina, dove si ammirano proprio le alture flegree alzarsi verticalmente, in maniera piatta e vorticosa.
    Da Piazza Amedeo raggiungo la Riviera di Chiaia, che è un bellissimo lungomare alberato nella zona ad ovest del centro storico. Me la ricordavo dal mio recente e fugace passaggio napoletano di sette anni fa, così ho deciso di iniziare da qui il percorso a piedi che mi porterà verso il centro. Il lungomare scoglioso offre una bellissima veduta del piccolo golfo tirrenico, che va da Posillipo al caratteristico Castel dell'Ovo, che si erge sulla punta di Santa Lucia, quasi a spaccare in due la città. Oltre, ma in lontananza, lo sguardo si perde verso il lungomare campano fino ad arrivare alla costiera amalfitana e all'isola di Capri.
    Mi incammino verso est, percorrendo la bella via Carracciolo, che dopo aver costeggiato il Parco Comunale di Piazza Vittoria, diventa via Partenope e rientra in un lungo Tirreno più urbano, sfoggiando una serie di palazzi belli e dai colori molto accesi. Locali di ogni genere si affacciano su questo scenario e di sera, come mi ha detto la ragazza del B&B, qui la vita è sicuramente molto attiva.
    Nel frattempo si avvicina Castel dell'Ovo, il castello più antico di Napoli, che sorge su un isolotto proprio di fronte alla costa. Un tempo unito da un istmo di roccia, oggi si può raggiungere con un ponticello sugli scogli. Non è affascinante solo per la sua storia o per la bellezza del panorama che si può ammirare dalle sue torri (essendo stato fortificato sulla punta propaggine del monte di tufo Echia, che si erge sul Golfo), donde l'occhio può spaziare per tutti i litorali della città. Castel dell'Ovo è un tuffo nel cuore di Napoli, un mix di leggenda, mito, arte e tempo.
    Ne è un chiaro esempio la bellissima mostra fotografica nella quale mi imbatto casualmente gironzolando per i sotterranei. In una segreta scavata nella roccia una quarantina di tele ripercorrono tutti i momenti salienti della vita di "Neapolis": dallo sbarco di Enea, dall'uovo di Virgilio e della tragedia amorosa della sirena Partenope (che rifiutata da Ulisse si tolse la vita, nda), alla storia di Masaniello che fu a capo dell'insurrezione contro il viceré spagnolo, alle più recenti cronache di guerra della Seconda Mondiale (quando Napoli fu duramente e inspiegabilmente colpita e bombardata dagli eserciti “liberatori” anglo-americani), e al folklore storico e patriottico, che va in egual misura dalla maschera di Pulcinella a quella di Totò, dalla poesia di Eduardo De Filippo alle canzoni di Pino Daniele, dalla sacralità del sangue di San Gennaro alla profanità di un Diego Aramando Maradona che capeggia folle di tifosi nel tempio altrettanto “sacro” dello stadio San Paolo di Napoli.
    Ed è qui, sì davvero qui, in questa piccola galera nella rocca, che Napoli mi entra dentro, tutto di un fiato, d'un colpo, in maniera violenta e dolce: è come essere investito da un'onda di mare ma che anziché trascinarmi sotto con essa, mi libera e mi fa rotolare via. Il tempo si ferma. E pure lo spazio circostante. Accanto a ogni quadro, pardon, a ogni fotogramma della vita di questa città - nata all'alba dei tempi e cresciuta e divenuta oggi una megalopoli viva e pulsante di ricordi e memorie - ci sono didascalie che riportano note, aforismi e citazioni. Vorrei riportarle tutte per merito, ma se devo fare una selezione copio e incollo questa: è una bellissima poesia scritta da Matilde Serao, ancora sulla sirena Partenope; quella stessa Partenope che ancora oggi dà nome a tutti gli abitanti di Napoli:
    “Parthenope non è morta, Parthenope non ha tomba, Ella vive, splendida giovane e bella, da cinquemila anni; corre sui poggi, sulla spiaggia. E’ lei che rende la nostra città ebbra di luce e folle di colori, è lei che fa brillare le stelle nelle notti serene... quando vediamo comparire un’ombra bianca allacciata ad un’altra ombra, è lei col suo amante, quando sentiamo nell’aria un suono di parole innamorate è la sua voce che le pronunzia, quando un rumore di baci indistinto, sommesso, ci fa trasalire, sono i baci suoi, quando un fruscio di abiti ci fa fremere è il suo peplo che striscia sull’arena, è lei che fa contorcere di passione, languire ed impallidire d’amore la città. Parthenope, la vergine, la donna, non muore, non muore, non ha tomba, è immortale ...è l’amore.”

    8 – "Dopo cena ho passeggiato per un'ora in via Toledo. Folle di gente, si può a malapena distinguerla da Broadway" (Herman Melville)
    Alcune persone fanno il bagno sul lungomare Nazario Sauro al mio passaggio. Il sole è ora alto in cielo e il caldo di fine settembre sta stringendo Napoli in una morsa più estiva che autunnale. Altri, meno audaci, restano in slip a prendere il sole sugli scogli dirimpettai ai giganteschi moli del porto di San Giovanni Barra.
    Sono sprovvisto di cartina stradale e sto seguendo le tante mappe che sono installate ogni due-trecento metri e un po' di lontani ricordi del 2010. Suppongo che dovrei essere nei pressi di Piazza del Pebliscito, e infatti non mi sbaglio. Risalendo una scalinata di via Cesario Console, sbuco poco dopo nella piazza più famosa della città. Di una dimensione di 25 mila metri quadrati (che la rendono una delle piazze più grandi di Italia, nda), ha assunto il nome di “Piazza del Plebiscito” in seguito allo storico voto popolare del 1860 che unì il Regno delle Due Sicilie al futuro Regno d'Italia. Ha una spettacolare conformazione semi-circolare sul lato della neoclassica mille-ottocentesca Basilica Reale Pontificia di San Francesco da Paola (stucchevoli la scalinata e le colonne realizzate in marmo di Carrara) e una rettangolare nel lato lungo contro la facciata del seicentesco barocco Palazzo Reale di Napoli (sede dei viceré dei governi spagnoli e dei reami borbonici).
    Piazza Pebliscito in un angolo diventa la più minuta Piazza Trento e Trieste, da dove parte via Toledo, l'arteria pulsante del centro storico: è lunga circa un chilometro e mezzo e conduce verso piazza Dante. Scorre fra palazzi antichi, boutique, caffetterie: a destra si diramano le viette che scendono verso il porto e la zona dell'Università; a sinistra, invece, piccoli e stretti budelli si arrampicano fra i noti e leggendari Quartieri Spagnoli. Nonostante la cattiva nomea che hanno quest'ultimi, legata a ripetuti episodi di microcriminalità del passato, i Quartieri Spagnoli sono molto caratteristici. Lo scopro appena mi ci addentro. A differenza di via Toledo, affollata di gente e di negozi che sfoggiano i soliti grandi franchising dell'alta moda, per le viette dei Quartieri Spagnoli si riscoprono, invece, le antiche botteghe artigianali di una volta, ancora oggi a conduzione familiare. Fra gli alti palazzoni, striscioni appesi fra un balcone e l'altro, così come i caratteristici panni stesi ad asciugare, nonché le scalinate che si arrampicano sulle pendici del colle di Castel Sant'Elmo, mi smarrisco per qualche minuto nel silenzio, nella penombra e soprattutto nella vera cultura popolare e urbana di Napoli. Qualcuno si affaccia fuori da un negozietto per squadrarmi dalla testa ai piedi, è vero, ma non avverto nessun reale pericolo su di me. Dopo aver girovagato un po', rientro su via Toledo, più avanti, nei pressi di Piazza Carità, addobbata da bancherelle che vendono di ogniché.
    Verso la rotonda piazza VII Settembre via Toledo inizia a stringersi e comincia a salire leggermente. La strada non è più il corso pedonalizzato che era nei pressi di via Diaz, ma abbraccia il traffico intenso di auto, camion e bus. La via Toledo confluisce in piazza Dante, una delle principali cittadine, sovrastata da una grande statua dell'omonimo poeta duecentesco e dall'antico Foro Carolino. Dei ragazzini, con indosso le maglie azzurre del Napoli Calcio, giocano a pallone al centro della piazza. Sotto Port'Alba (una antica porta della città) che sorge sul lato nord, appare il decumano principale (Via Tribunali), che conduce verso il Duomo e poi successivamente a Castel Capuano. Io raggiungo la Cattedrale, tuttavia, facendo un giro più largo, e cioè proseguendo per via Pessina (la naturale continuazione di via Toledo) e sbucando nella verdeggiante Piazza Cavour, spartiacque fra il centro vecchio e il Rione Sanità. Rientrando da Porta San Gennaro (la più antica di Napoli e l'unica rivolta verso nord) mi dirigo verso via Duomo e lungo di essa raggiungo la Cattedrale di Santa Maria Assunta, un medievale mix di architetture gotiche, rinascimentali e barocche. L'interno con la tipica pianta a croce romana è suddiviso in navate con cappellette laterali. Una di queste è la Reale del Tesoro di San Gennaro, uno dei luoghi più sacri dell'intera città.
    La devozione per San Gennaro fra i cattolici napoletani è forte e lo si avverte anche al di fuori della cattedrale. Una simile venerazione la potrei paragonare solo a quella verso San Pio nella Puglia del nord. Scendendo via Duomo ri-verso il centro, un gigantesco murales dipinto su una enorme facciata di un palazzo, e raffigurante proprio il vescovo cristiano del III secolo d.C., conferma le mie supposizioni.

    9 - "Parto. non dimenticherò né la via Toledo né tutti gli altri quartieri di Napoli; ai miei occhi è, senza nessun paragone, la città più bella dell'universo" (Stendhal, 1817)
    A Castel dell'Ovo, fra i quadri esposti alla mostra sulla storia e la tradizione di Napoli, ce n'era anche uno sul piatto tipico per eccellenza. La Pizza. E, ovviamente, sulla storia (taluni dicono “leggenda”…) del nome “Pizza Margherita”. Non ne ho parlato volutamente prima quando mi trovavo al castello, bensì lo racconto adesso, perché mi sto dirigendo da Via Duomo verso l'incrocio di via Sersale con via Colletta (una traversa di corso Umberto I, nda), dove sorge l' “Antica Pizzeria da Michele”, un luogo altrettanto sacro per i napoletani; ma anche per i turisti di tutta la Terra.
    La Storia narra che a unità nazionale avvenuta, i reali piemontesi fossero soliti passare le vacanze estive nelle vecchie dimore borboniche. Per un senso, comunque, di rispetto verso la città di Napoli e il suo passato di capitale del Regno delle Due Sicilie. Nell'estate del 1889, Re Umberto I e la regina Margherita di Savoia vennero a Napoli; la prima regina d'Italia voleva assaggiare a tutti i costi la famosa pizza napoletana, e siccome che per ragioni di sicurezza ella non poteva andare nelle pizzerie cittadine, fu chiamato nella ex corte borbonica il miglior pizzaiolo dell'epoca, tal Raffaele Esposito, che inventò un nuovo tipo di pizza: basata sui colori raffiguranti la nuova bandiera italiana (rosso: pomodoro, bianco: mozzarella, verde: basilico), creò sul momento la “Pizza della Regina Margherita”. Col tempo si ridenominò semplicemente pizza margherita, e pian piano la pizza fu esportata in tutto al mondo con tantissime varianti e versioni.
    Una volta che entrerò, però, alla vecchia pizzeria “Da Michele”, mi accorgerò subito che qui tutte quelle varianti inflazionate a cui siamo abituati noi non esistono: la pizza, per un napoletano d.o.c., è solo ed esclusivamente quella classica, cioè la “Margherita”.
    Mi avevano avvisato un paio di amici via Facebook ieri sera che le attese al locale “Da Michele” potevano essere davvero lunghe. La fila, che assedia il piccolo ingresso al piano terra di un grosso edificio dalla facciata di colore beige, è effettivamente consistente. Folle di persone stazionano in piedi, fra le auto parcheggiate, di fronte al contiguo negozietto di merchandise calcistico che sfoggia bandiere e sciarpe del Napoli; altre sono sedute sui marciapiedi di via Sersale, una stretta viuzza che si arrampica verso il quartiere Forcella.
    Ogni tanto un membro dello staff del locale (dall'abbigliamento sembra un cuoco, con il classico grembiule davanti e il berretto in testa) si affaccia e grida dei numeri. Sono quelli che possono entrare e accomodarsi ai tavoli. In breve capisco che ci sono due file: la prima, sulla sinistra, è quella di chi è in coda per prendere l'asporto e andare via (o mangiarselo lì fuori, come fanno in tanti); la seconda, sulla destra, è invece di quelli che aspettano di essere chiamati.
    Mi addentro per prendere il numero della lista.
    «Sei da solo?» mi domanda il pizzaiolo.
    Ho appena il tempo di dare un rapido sguardo all'interno del locale. Subito di fronte ci sono i piani cottura, il forno e un bancone che corre lungo tutta la larghezza della stanza. Cinque o sei pizzaioli sono intenti a faticare senza un minimo di sosta: stendono la pasta di pizza, la lavorano, la condiscono, la sollevano e la mettono nel forno, dal quale estraggono quelle cotte e pronte per essere mangiate. Due o tre tavolini vicini alla cassa; poi c'è una porta, sulla destra, che conduce, molto presumibilmente, ad altre stanze.
    «Sì» rispondo.
    «Ci vogliono due ore almeno per sedersi!»
    «Due ore?» ribatto. Non credo alle mie orecchie.
    «Ti conviene prenderla d'asporto, ci metti meno!»
    Sto tentennando un po' nella risposta e siccome c'è da chiamare altre persone e distribuire nuovi numeri, il pizzaiolo gentilmente mi viene in soccorso: strappa un bigliettino con sopra il numero 90 e me lo porge.
    «Tiè, priendilo!»
    Subito dopo, rivolgendosi alla piccola folla davanti all'ingresso, chiama in successione i numeri 2, 3, 4, 5 e 6.
    Allora mi accorgo che aveva ragione. Ci vorranno davvero un paio d'ore.
    Con il senno di poi potevo venire prima qua, prendere il biglietto e andare a visitare la cattedrale e la zona a nord di via Toledo. Poco male, anche se il tempo è denaro, il relax è altrettanto importante. Mi siedo sotto un ombrellone al tavolino esterno in un bar dall'altra parte della strada; e ordino un aperitivo a base di campari e vino bianco al giovane cameriere che mi squadra e mi saluta con un “Hello!”
    Eh niente, i miei capelli lunghi e spettinati, la barba mai perfettamente rasata, gli orecchini, i tatuaggi, mi conferiscono in certe circostante un look slavo o est-europeo: non ho altre spiegazioni. Questa nemesi si è rafforzata quella volta a Minsk, in Bielo-Russia (viaggio Vilnius-Minks-Mosca II, cfr. “Chronicles of Est Europe”, nda), quando una donna dietro a un chiosco di carne grigliata ha cominciato a parlarmi in rumeno solo guardandomi in faccia – e meno male che mi sono studiato negli anni un po' di lingua rumena per i fatti miei... Ma, ancora più imbarazzante è la stata la scena accorsa la primavera scorsa a Catania, quando entrando al Palazzo della Cultura per ammirare la mostra dedicata al disegnatore Escher, due belle ragazze alla reception si sono messe a parlarmi in inglese molto lentamente, come per cercare di farmi capire pian piano quello che volevano dirmi; quando le ho interrotte e fatto capire subito loro quello che ero, una delle due con una faccia sorpresa ha detto all'altra:
    «Ah! E' italiano!»
    Come dire: …..[omissis]…
    La prima ora passa così, sorseggiando un “bianco sporco”, come lo chiamiamo noi al Nord, ma che al sud non esiste ufficialmente come aperitivo e si deve ordinare con un metodico e fuori dalla righe “campari con vino bianco”; la seconda ora, invece, la trascorro in piedi in fila, tentato più volte di imbucarmi nella coda del take-away e farla finita così. Ma alla fine resisto e numero dopo numero finalmente arriva il 90. Mi infilo dentro il locale e vado sulla sinistra. Arrivo, dopo un altro ambiente, in un'ultima stanza e condividerò il pranzo (anche se solo le 15:30!) con uno sconosciuto, anche lui solitario e anche lui lì per mangiare la famosa pizza “di Michele”. Non è di molte parole. Un po' come me. Meglio così.
    La pizza è veramente diversa. Soprattutto nella forma. E' gigantesca, almeno il doppio di quelle che siamo abituati a mangiare noi. E' molto sottile e leggera e si scioglie in bocca. I camerieri la servono accompagnata da piccole birre Peroni Nastro Azzurro da 0.33 cl. E servono solo ed esclusivamente pizza con mozzarella, pomodoro e basilico. L'unica alternativa ammessa alla classica Margherita, è la Marinara. Stop. Per il resto, da Michele quando ordini una pizza, ti portano LA pizza, quella con la P maiuscola.
    Ho giusto il tempo a fine pranzo di postare la foto su F.B., scrivere due righe di commento, che lo stesso cameriere ritorna e invita chi ha terminato il pasto di andare alla cassa a pagare e di lasciare il locale. Proprio così. Ma d'altronde fuori c'è la stessa fila di due ore fa, di un'ora fa, e di quando sono riuscito ad entrare. Una lunga catena di montaggio della pizza, direttamente dal fabbricatore al consumatore, che si protrarrà verso la sera, la cena e poi la notte fino all'ora di chiusura.
    Come ogni cibo, quelli mangiati e assaporati nella propria terra di origine sono completamente diversi da quelli esportati in giro. Questa è una regola fissa che vale per qualsiasi cucina o piatto tradizionale o prodotto alcolico, ecc. Oggi mi approprio di una certezza. A quasi 42 anni ho mangiato per la prima volta la Pizza in vita mia. Quella napoletana, quella originale. Con tutto il rispetto per chi fa questo lavoro in giro per l'italia e per il mondo, ma la pizza all' “Antica Pizzeria Da Michele” è tutt'altra cosa: è proprio un'ALTRA cosa, cioè è un altro piatto, un altro cibo. E possono ciarlare finché vogliono i pochi detrattori, che si lamentano su internet, spargendo il web di carabattole e menate varie come l'eccessivo tempo di attesa, l'esistenza di sole due varianti, che condividi il tavolo con estranei, ecc.
    Se vi piace una pizza fatta in fretta e come volete voi andate dal kebabbaro all'angolo; che quella di “Michele” non è solo Cucina. E' la vera Napoli.

    10 - .Con lo stomaco pieno e sazio mi dirigo verso piazza Garibaldi, dove oltre all'enorme stazione ferroviaria centrale in fondo, c'è la fermata della Metropolitana. Quando calcolerò il percorso di oggi su "google maps" mi accorgerò di aver camminato la bellezza di quasi 10 km a piedi, fra Parco Margherita e Stazione Centrale, attraverso le deviazioni di via Toledo, Quartieri Spagnoli, Piazza Cavour e Via Duomo...
    Raggiungo la stazione sotterranea per tornare verso ovest. La linea metro-ferroviaria per Pozzuoli ha completamente preso il posto della vecchia linea storica. Una volta tutti i treni di lunga percorrenza per/da il Nord, sia diurni che notturni, passavano da qui. Negli anni sono stati deviati su una cintura più esterna e oggi questo tratto della vecchia Formia-Salerno è occupato interamente dalle corse della “Linea 2”.
    Scendo a Mergellina, la zona più occidentale del quartiere Chiaia, al confine con Pedigrotta e Posillipo. Un drink veloce al primo baretto che trovo aperto scendendo corso Vittorio Emanuele; la piazza con la Statua della Sirena, la galleria che buca la collina e collega con Fuorigrotta, Campi Flegrei e Bagnoli; il lungomare arricchito con chioschi che vendono snack, cibi e bevande di ogni tipo. Cammino per un po' , fino a dove la litoranea entra in Posillipo e si allontana dalla costa. Indi torno leggermente indietro e staziono sul molo più lungo del porticciolo. Coppiette che camminano abbracciate, amici che siedono sulle panchine, gatti randagi che scorrazzano fra gli scogli, due sposini che si fanno scattare foto con lo sfondo di una Napoli bella e a colori. E da qui si vede tutta che è una meraviglia: il lungomare di Chiaia, le colline del Vomero, la punta di Castel dell'Ovo, E poi ancora più attorno, il Vesuvio, la costiera Amalfitana, l'isola di Capri, il mare Tirreno...
    Per tornare su a Vanvitelli faccio un giro più articolato. Con la metro-ferroviaria torno indietro verso Centrale, ma scendo a Montesanto. Ripide scale mobili mi portano verso la superficie, sbucando in una piazzetta quadrata immersa nei vicoletti dell'omonimo quartiere. Poco distante c'è l'omonima piazza, occupata interamente dal terminal delle ferrovie Cumana, Circumflegrea e la funicolare dell'A.N.M. E' abbastanza affollata di viaggiatori, ma la maggior parte prendono i treni diretti a Torregavetta (Monte di Procida). La vecchia funicolare (simile in tutto e per tutto alla Chiaia-Vomero di stamattina) sale verso Morghen, scavallando più di 800 metri di distanza, e arrestandosi nei pressi del punto alto della città.
    Qui vicino sorge Castel Sant'Elmo, un castello medievale oggi adibito a museo, che dalla cima della collina del Vomero domina tutta tutta la città, il golfo, e le strade che dalle alture circostanti conducono verso il centro. Lo spettacolo è meraviglioso, soprattutto per i colori, poiché sta arrivando la fine della giornata e tinteggi di rosa tramonto cominciano a colorare il gigantesco quadro infinto che ho davanti ai miei occhi lungo Belvedere San Marino. Aveva ragione Matilde Serao: Partenope non è morta, si è semplicemente trasformata in tutta questa bellezza che sto osservando. Lei è Napoli stessa: è il mare calmo della sera, il centro storico, i quartieri attorno, il formicaio di vite che brulicano impazzite là in basso, lo sfondo di colli che si addentrano verso gli Appenini, e oltre, lo spartiacque con la Puglia, il resto del Sud, il resto del Mondo.
    Partenope è l'Amore, chiosò Serao. Quell'amore rifiutato da Ulisse e oggi trasformato in tutta questa meraviglia. Se mi chiedessero in questo momento cos'è l'Amore, io risponderei altrettanto. Niente più proclami sdolcinati e pseudo-romantici per donne che sono entrate per sbaglio nella mia vita e sono uscite dalla porta di servizio lasciandomi meno di nulla. L'Amore è questo. E' tutto ciò che vedo in questo istante. E' Napoli. E' il mare della sera. E' la fine di una giornata passata così. Non può esistere altro Amore se non tutto questo...

    11 – Domenica mattina, ed è già tempo di riprendere i bagagli e ripartire. Le gestrici del B&B non ci sono, così lascio le chiavi sul mobiletto d'ingresso, insieme a – come promesso loro – una copia del mio romanzo “Badlands along Po river”, con tanto di dedica e di ringraziamento per avermi accolto e avermi fatto sentire come a casa.
    La stazione metropolitana di Montedonzelli è vuota e semi-deserta. Ad aspettare la metro ci sono solo un paio di altre persone. Si riempirà stazione dopo stazione, mentre svuoterà pian piano me di tutto ciò che avevo dentro, di tutta la voglia di fare, andare, scrivere, raccontare...
    E' il “Mal di Sud”, puntuale, come sempre. Il termine pseudo-medico l'ha coniato anni fa Marina, una mia amica pugliese: l'ha definito come quell'insieme di sintomi malinconici e il vuoto psico-fisico che ci assalgono, quando stiamo lasciando il Sud e alla prossima volta sappiamo già che mancherà tanto, forse troppo. Napoli non è il mio Sud, ripeto, non è la mia Puglia, ma è come se lo fosse stato. Forse due giorni saranno pochi per visitare Napoli, conoscerla, apprezzarla, ma a me sono bastati. D'altronde dicono che bastano sette secondi per innamorarsi di una persona: allora, perché a me non sarebbero dovuti bastare due giorni per innamorarmi di Napoli? E per sentirne già la tremenda mancanza quando da solo, con un borsone in spalla, attraverso la gigantesca e futuristica piazza Garibaldi e mi ritrovo dentro alla stazione centrale, davanti ai cartelloni elettronici delle partenze?...
    Ancora una volta.
    Ancora…
    «I cambiamenti sono pericolosi e spavantosi. Per cambiare ci vuole coraggio… -legge a voce alta la gestrice del B&B di Montedonzelli: è due giorni fa, venerdi pomeriggio, quando arrivai, appena presentatomi e appena mostrato uno dei due libri che avrei presentato quella sera- I cambiamenti sono come le guerre, con i loro dolori, i patimenti, le sofferenze, e dagli esiti molto incerti. Ma nei cambiamenti, così come in guerra o in amore, esce sconfitto solo chi ha il coraggio di provarci…. Bello! -commenta la sinossi in quarta di copertina– Molto bello!»
    La figlia annuisce.
    «Se ti compriamo una copia possiamo esporlo sulla nostra libreria, così tutti i visitatori potranno sfogliarlo e leggerlo!» propone.
    «Certo! -rispondo- Anzi, farò di più: domenica vi lascio una copia regalo! Ci mancherebbe!»
    Ringraziamenti, sorrisi, parole.
    Sto ritto contro il muro davanti al binario 18, dove c'è già stazionato il treno “Italo” per Milano Centrale delle ore 11:35.
    Aspetto con poca voglia che apra le porte per far salire tutti i passeggeri assiepati lì di fianco. E intanto...
    «Sai, a noi c'è molto caro il tema del “cambiamento”, di cui parli nel tuo libro… -continua a dirmi, sfogliando il romanzo, e fissandomi negli occhi- ...E soprattutto il “coraggio di cambiare”. Per fare quello che abbiamo fatto -allude al B&B che gestiscono da anni- il coraggio noi l'abbiamo avuto!»
    Mi fissa negli occhi con un sorriso. E io so già tutto...
    Il coraggio. Di cambiare. Ma realmente. Vorrei tanto avercelo anche io, e non solo i personaggi dei miei romanzi. Vorrei come sempre fare tante ogni volta che torno a Pavia da un viaggio. Ma non so mai quali sono quelle giuste. Se restare o andare. Se fermarmi o buttarmi. Se davvero voglio una cosa, che tanto poi quando ce l'ho è sempre una delusione, una sull'altra, che rende ormai la vita soltanto un sopravvivere amarognolo fra un diario di viaggio e l'altro, fra uno passato e quello che verrà, fra un sogno e un altro ancora.
    Quando sono seduto sul sedile a bordo del treno che inizia la sua irreferenabile corsa, e i grattacieli e i palazzi e i colli di Napoli iniziano a scivolare via dal finestrino, i miei occhi cominciano a richiudersi. Così, magicamente, tutto questo viaggio potrà sembrerà soltanto un sogno.
    Questi due giorni, le cose ho fatto, quelle che ho visto, le persone conosciute, Napoli stessa.
    Tutto un gigantesco sogno. Perché è così. Napoli mica esiste veramente: è una città immaginaria, che non ha una collocazione geografica reale. E' solo un sogno. Un gigantesco sogno. Che si fa dormendo.
    Oppure ad occhi aperti.
    Come nelle favole più belle della Vita.

    Edited by Liutprando - 11/10/2017, 22:50
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