MIRKO CONFALONIERA


Replying to ROAD TO THE DESERT

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  1. Posted 25/4/2023, 17:23
    nbts-viaggi-tunisia-deserto-sahara

    "Dimmi solo che mi vorresti qui,
    quando vagherai da solo là fuori,
    fra quelle colline di polvere e quei venti che soffieranno forte,
    solo in quell’oceano bianco e arido,
    solo e perduto in mezzo al deserto.
    Seduto con te in un cerchio di fuoco
    io dimenticherò i giorni andati via,
    proteggerò la tua anima e il tuo corpo
    dai miraggi e dalle illusioni che vedrai
    solo e perduto in mezzo al deserto.
    Se le tue speranze si disperderanno
    come la polvere lungo il tuo cammino,
    io sarò la luna che brillerà sul tuo sentiero,
    se il sole accecherà i nostri occhi,
    io pregherò i cieli lassù
    che la neve cada sul Sahara.
    Se quello sarà l’unico posto dove potrai lasciare i tuoi problemi,
    io sarò lì con te e sarò la tua via d’uscita,
    e se bruceremo insieme
    io pregherò i cieli lassù
    che la neve cada sul Sahara…"
    (Snow on the Sahara, Anggun)

    1 - Non è Pasqua oggi a Tunisi, come non lo è mai in un Paese mussulmano. Oggi, domenica 9 aprile, qui è la Festa dei Martiri, giornata di proteste e di commemorazioni che ricordano il 9 maggio 1938, quando la nazione era sotto il colonialismo della Francia, e si celebra l'84esimo anniversario degli scontri tra gli indipendentisti e gli occupanti, a cui i primi chiedevano riforme e un Parlamento per segnare un nuovo passo verso l'indipendenza, ma almeno 21 tunisini morirono a causa della repressione delle forze armate francesi. Nel pomeriggio di oggi sono scesi in piazza quelli del Fronte di Salvezza Nazionale che davanti al Teatro Municipale hanno protestato contro il presidente Saied chiedendo la sua destituzione e il rilascio dei prigionieri politici.
    Già da ieri pomeriggio, al mio arrivo, l’avenue Habib Bourguiba, il grande viale a due carreggiate e con un’allea al suo centro, che scorre orizzontalmente da ovest a est unendo la Medina con la superstrada per il porto de “La Goulette”, era presidiato da uomini della polizia e dell’esercito. Transenne sono state piazzate per limitare il traffico a una sola carreggiata (quella che dalla stazione di Tunisi Marina corre verso la Porta di Francia), e anche il marciapiede del lato meridionale a un certo punto era sbarrato e non si poteva proseguire. Numerose camionette dell’anti-sommossa stazionano ogni tot. metri e c’è un forte dispiegamento di forze dell’ordine e di militari. Gruppetti sparsi, che stazionano qua e là e osservano tutto ciò che succede. Alcuni soldati imbracciano fucili con mirini ad alta precisione.
    Fa un po’ impressione vedere questo scenario, che non è nuovo nelle memorie dei miei viaggi e che mi riporta alla Kiev del 2014 (durante l’occupazione dei paramilitari dell’immediato post-Maidan), ma se sposto lo sguardo altrove la vita pare “normale”, nella valutazione che può dare uno come me, giunto per la prima volta in questo Paese del Nord Africa: locali e negozi aperti, gente che viene e che va, traffico intenso di auto, taxi e bus in ogni direzione. In questi giorni c’è ramadam, periodo dell’anno in cui si pratica il digiuno dall’alba al tramonto, in commemorazione della prima rivelazione del Corano al profeta Maometto. Durante il giorno nei bar e nei ristoranti si vedono solo turisti, mentre l’alcool non si vede proprio, neanche una goccia da quando sono arrivato. Il costo della vita è veramente basso, anche se ho notato che qualcuno, vedendo che sono occidentale (e sono da solo), cerca di arrotondare un po’ verso l’alto, ma poca roba. Pago quello che mi dicono e lascio anche un po’ di mancia. Ieri sera per una cena al Cafè Panorama (appena dietro l’angolo del mio albergo, il Confort Hotel Tunisi) ho pagato la pochezza di 45 dinari tunisini (poco più di 13 euro) per un abbondante “combo” di antipasto + secondo di pesce, più acqua minerale, più l’immancabile thé arabo con foglia di menta. Ieri la corsa del taxi dall’aeroporto a rue de Marseille, dove sorge il mio hotel, mi è costata 5,50 dinari (1,50 euro). Prezzi che nel mondo occidentale sono assolutamente inimmaginabili.
    L’arrivo in aereo (volo diretto con la compagnia TunisAir da Milano Malpensa) è stato caratterizzato da lunghi controlli subito dopo l’atterraggio. Al controllo passaporti la zelante ufficiale dietro lo sportello (con il velo attorno al viso, come tutte le donne, anzi, qualcuna indossa addirittura i burqa integrali...) ha voluto sapere quasi tutto di me: da dove venivo, che lavoro faccio in Italia, il motivo per cui sono in Tunisia, quanto tempo ho intenzione di fermarmi, dove sono diretto oltre a Tunisi e in che albergo avrei alloggiato. Le ho dovuto mostrare la prenotazione stampata dal sito booking.com.
    Faccio qualche passo in avanti verso l’uscita e un altro controllo: un altro poliziotto vuole vedere il passaporto. “Prego”. “Come mai a Tunisi?” “Turismo”. “Cos’ha nello zaino?” “Oggetti personali”. “Tipo?” “Magliette, pantaloni, un tablet e dei libri”. “Ok, vada”. Parlo un po’ in francese e l’altro po’ in inglese, laddove non arrivano i miei ricordi del français sperduti nei lontani anni delle scuole medie e superiori, prima che venisse scalzato dal più amato español all’università e dal più recente autodidatta român.
    In Nord Africa c’ero già stato, nel 2016, con il moi amico Petrus, in Marocco, e come allora ho constatato subito che per un turista europeo è pressoché impossibile riuscire a vedere la Medina (la cittadella antica) senza essere placcato subito da un poliglotta locale che fa l’amicone della vita e che vuole ‘solo’ accompagnarti in giro per dividere un caldo pomeriggio primaverile con te. Il mio nella fattispecie si chiamava Abdul e qualcos’altro, ha vissuto a Brescia, ha visto anche Milano, adesso lavora qui a Tunisi in un negozio che vende oli per il corpo. Mi parla che è tempo di ramadam, che oggi è la Festa dei Martiri, e che è meglio evitare Place de la Victoire per raggiungere il centro perché è imballata di bancarelle e quant’altro (per via di una tipica ‘Fiera’ di questo periodo dell’anno).
    Bab El Bhar, detta appunto Porta di Francia o anche Porta del Mare (effettivamente è rivolta verso il porto), è un gigantesco arco che separa la Medina dalla città moderna. In effetti pensare di passare oltre è fuori discussione, così la mia volontaria guida ci fa prendere una vietta secondaria, dove ci immettiamo subito nel Suq che domina gran parte del centro storico. I suq, detti talvolta bazar, indicano i mercati arabi e sono caratterizzati da una serie di bancarelle e negozi tutti attaccati agli altri, spesso locati in stretti vicoletti coperti. Si vende di tutto, dalle spezie alle stoffe, alle pelli, a ogni cosa possibile, ecc..
    La compagnia di Abdul effettivamente è d’aiuto perché frena un poco i mercanti dal propormi di comprare di tutto. Dopo avermi portato in un sedicente ‘Museo del Tappeto’ (in realtà un grosso negozio di tappetti dove un ragazzotto furbetto che parla tutte le lingue del mondo, prima mi fa esplorare liberamente tutto l’edificio da terra al terrazzo, poi cerca di vendermi un prezioso arazzo per 4.000 dinari tunisini - promettendomi di spedirmelo a casa e che ‘ci pensa tutto lui’...), il piano di Abdul si concretizza nel trascinarmi nella ‘sua’ bottega di oli e profumi, gestita in realtà da un suo giovane amico. Mi viene il dubbio che Abdul viva di questo : agganciare turisti, trascinarli in più posti e poi ricevere commissioni sugli affari che i suoi amici riescono a concludere…
    Dopo aver rifiutato una boccia di Olio d’Argan, spacciatami per un olio da corpo super-miracoloso (“Ha pure un potentissimo effetto afrodisiaco”, “Sono in Tunisia da solo…”, “Ma con questo conquisti tutte le donne che vuoi appena uscito da qui”…) a un prezzo che corrisponde a un paio di cento euro, mi accordo per quattro più modeste ed economiche fialette da 20 cl. l’una, di oli alle fragranze di ‘cactus’, ‘jasmine’, ‘la maison’ e ‘nuit de Carthage’. Speriamo di riuscire a farle passare al controllo scanner quando dovrò riprendere l’aereo per tornare a casa, anche se ne dubito, visto i controlli meticolosi dell’arrivo…
    Vabbè, la computo come una piccola tassa di soggiorno, che non mi è costata neanche troppo, per salutare ‘mon ami Abdul’ ed essere finalmente libero di vedere la Medina da solo. Ma subito dopo me ne pento, perché una volta da solo e senza più la mia ‘guida’, sarà un continuo assalto di venditori che cercano di vendermi qualsiasi cosa, perfino quadri e vasi in ceramica che non saprei nemmeno dove mettere.
    - Italiano ? Italiano ? Buongiornooo, prego amico, comprare!
    Niente da fare, si vede che non ho più quell’aria est-europea che nei primi viaggi nella mia cara Europa Orientale mi faceva mimetizzare così bene. Ma qui riuscirebbero a capire da che parte del mondo arrivi solo vedendoti camminare e leggendoti la nazionalità sulla tua faccia.
    Fra migliaia di ‘no, grazie!’, ‘no, merci!’, ‘no, thanks!’, la Medina la giro in fretta, un po’ seguendo la mappa incorporata nella mia guida, un po’ perdendomi per i suoi vicoletti. Certo, l’atmosfera sarebbe un po’ più rilassata se si evitasse di passare dagli assalti dei venditori alle vie sgombre dai suq dove a ogni passo e a ogni incrocio di sguardo mi sento squadrato dalla testa ai piedi.
    Niente da fare, così è impossibile raggiungere i quartieri a nord del centro. Tanto le varie moschee non posso manco visitarle, perché l’ingresso nelle moschee in suolo africano è consentito solo ai mussulmani (con tanto di cartello affisso fuori) - le uniche moschee che ho visto in vita mia, infatti, sono quelle dei paesi dell’Est Europa, tipo Bosnia e Albania). Mi metto il cuore in pace e mi butto sulla lunga rue Jamaa Ezzitouna, la principale arteria pedonale che collega la Grande Moschea con la Porta di Francia. Passo attraverso un’atmosfera quasi cinematografica d’altri tempi, dove incrocio chiunque (anche altri turisti come me) e dove, ovviamente, vengo continuamente fermato e invogliato a comprare qualsiasi cosa.
    Nella giornata di quella che in Italia sarebbe “Pasquetta” ho preferito, invece, spostarmi da Tunisi e andare a vedere la mitica Cartagine. Della antica città di Annibale oggi restano molte cose interessanti da vedere, come il Parco Archeologico, il Museo Nazionale e altri monumenti tipo il Teatro Romano. L’ingresso a ogni area costa 12 dinari (3,60 euro), si può scegliere di avere una guida (con un sovrapprezzo) oppure accedere liberamente.
    Cartagine sorge a 20 km in direzione nord-est di Tunisi, e si affaccia sulle acque del bellissimo e cristallino Golfo di Tunisi (mar Mediterraneo). Per arrivarci ci sono frequenti treni che partono dalla stazione di Tunisi Marina con una frequenza di 20-30 minuti, dalla mattina fino a sera inoltrata. Non è una ferrovia gestita dalla Societé National Des Chemins de Fer Tunisiens, ma è una linea a scartamento ridotto, comunque elettrificata e a doppio binario. Il materiale rotabile è di tipo leggero (ricorda molto una nostra ‘metropolitana’), generalmente composto da due vagoni attaccati fra loro. Ci mette pochi minuti a percorrere tutta la tratta. L’atmosfera è un po’ più ipotesa, essendo ‘Carthage’ un luogo generalmente bazzicato solo da turisti, anche se appena fuori tassisti e soliti venditori di bancarelle cercano sempre di racimolarti qualsiasi cosa.

    2 - Non è un bel boccale di birra ghiacciata quello che tengo fra le mani, che mi piacerebbe tanto tracannare con gusto nello stesso tempo. Non tocco alcool da 72 ore, qui in Tunisia, praticamente da quando sono arrivato. Nei caffé di città o lungo le strade verso il Grande Sud si serve solo caffè arabo o il famoso thé con foglie di menta. C’è di bello, e quello sì, che il Café Nomade sorge proprio su suolo desertico e che di fronte a me si alza la “grande duna” dalla cui cima si osserva un mondo vuoto e stupendamente desolato.
    Sono a Douz, “la porta del Deserto”, 520 km a sud di Tunisi, percorsi oggi con il più lungo spostamento di questo tour. Avrei dovuto prendere un pullman di linea della società di trasporti “SNTRI”, che dall’autostazione di Bab Aliwa (poco a sud del centro storico) collega la capitale con praticamente tutta la parte meridionale del Paese. Il pullman partiva stamattina alle ore 11:00 e sarebbe arrivato a Douz, dopo svariate fermate, alle 19:45, in piena “notte”. A proposito, qui siamo un’ora indietro rispetto all’Italia, ma non per via di un fuso orario differente, ma semplicemente perché in Tunisia non c’è l’ora legale. Quindi il sole sorge prestissimo alla mattina e tramonta altrettanto presto di sera, e il Ramadam - che si sta religiosamente osservando in questi giorni - dura per tutta questa fascia oraria solare.
    Dicevo, sarei arrivato tardi, con il sole già tramontato dietro le alture occidentali dell’Algeria, per cui ho preferito dare retta a un consiglio che sabato pomeriggio Abdul mi aveva confidato: non esistono solo i pullman a lunga percorrenza, ma ci sono dei “furgoncini” da nove posti che partono per ogni destinazione (delle sorte di taxi collettivi). Non hanno orari, semplicemente partono quando il furgoncino ha a bordo otto passeggeri (più ovviamente l’autista). Sono diretti in un’unica meta, non fanno fermate intermedie e di conseguenza sono molto più veloci.
    Stamattina mi reco, quindi, di buon’ora alla “Gare Routiere Sud” per cercare questi “mini-van”, ma una volta in loco mi spiegano che questi mezzi un po’ alternativi partono da un’altra autostazione, quella della Moncef Bay. Un autista tunisino, vedendomi scendere dal taxi, aggirarmi da solo sperduto in un mondo che non conosco, e chiedendo queste informazioni con tono disperato, si offre di accompagnarmi a piedi per un pezzo. Sarebbe dall’altra parte di un trafficatissimo mega-svincolo (Tunisi è piena di superstrade a più corsie, con incroci, sopraelevate, uscite, ingressi, e a parte la zona centrale è impossibile spostarsi a piedi: prendete il taxi o la metrotranvia che sono economicissime) e per arrivarci farei prima quasi a prendere un altro taxi per farmi portare a neppure 800 metri di distanza. In linea d’aria, perché a piedi dovrei fare un giro assurdo e allungare di 2 chilometri e mezzo per evitare di finire probabilmente stirato da bolidi che corrono uno dietro l’altro sul mega-svincolo fra la statale N1 e l’avenue de Carthage.
    Il signore tunisino di mezza età mi guida attraverso una scorciatoia fra stretti passaggi di pullman, pulmini, cabine, uffici e quant’altro e ci arrampichiamo un po’ fuori pista sul cavalcavia della ferrovia della Gare de Tunis. Una volta oltrepassato, mi scorta fino a un semaforo e mi fa cenno di proseguire dritto fin dove gira quella “voiture à la droite”. Ringrazio di cuore e obbedisco alle sue istruzioni.
    Arrivo alla stazione di Moncef Bay, che alla fine è un gigantesco capannone pieno imballato di questi furgoncini bianchi con una striscia rossa orizzontale al centro; è affollata (molto più dell’altra) di passeggeri in partenza per ogni dove. E’ inutile citare il fatto che – dopo una rapida carrellata con lo sguardo – mi accorgo di essere l’unico occidentale in loco, ma questo a parte qualche occhiata di curiosità non desta altre preoccupazioni. Mi metto in fila davanti al gabbiotto dove si fanno i biglietti. Il prezzo di sola andata per Douz è di 42 dinari tunisini, che corrispondo a 12,60 euro (non male per 500 e passa km di distanza). Mi indicano che i furgoncini per Douz partono in fondo, dalla parte opposta del mega parcheggio coperto.
    Devo continuamente chiedere, perché i cartelli esposti sui parabrezza dei veicoli sono scritti esclusivamente in alfabeto arabo. Finalmente trovo il mio mini-van, fermo nella sua piazzola, e con il suo autista seduto lì vicino che chiacchiera con alcuni colleghi.
    - Douz? - domando per l’ennesima volta.
    - Sì, è questo.
    - A che ora parte?
    - Quando siamo in otto.
    - Okay. Quanto tempo ci mette?
    - Cinque ore e mezza se non facciamo ritardo.
    Faremo una mezz’oretta di ritardo e ce ne metteremo sei di ore. Il problema è che non si parte davvero finché il furgoncino non è pieno. Al mio arrivo a bordo ci sono solo una donna seduta nella fila posteriore, un’altra con due bambini che occupano tutta quella centrale. Entrambe le donne indossano il velo. Mi accomodo in fondo, accanto alla donna da sola, che per rompere il ghiaccio mi chiede dove solo diretto, se è la prima volta, se ho mai visto il Deserto, ecc..
    Passa un bel po’ di tempo, più di un’ora, e arrivano un signorotto senza bagaglio, che scenderà a Kebili (poco prima di Douz, lungo la strada) e un giovane con uno zainetto in spalla. Si attende ancora e vanamente l’arrivo dell’ottavo passeggero. Un po’ stufo di quella attesa imprecisata, scendo e chiedo se posso andare a prendermi un caffè. Domando gentilmente all’autista se ne vuole uno anche lui, ma mi risponde con una risata e poi mi ricorda che è ramadam e che non può bere nulla. Rimango colpito da una così rigida osservanza di questi precetti religiosi.
    - Excusez moi, je ai oublié – rispondo sinceramente.
    Vicino alla biglietteria c’è un piccolo chioschetto bar. Prendo un succo di frutta e un tubetto di biscotti ripieni di crema. Li divoro in un attimo, perché uscendo presto dall’hotel non ho fatto neppure colazione; ho anche tempo di fumare una sigaretta.
    Convintosi del fatto che non saremo mai in otto, finalmente l’autista decide di partire. Sono le 10:30 di mattina e con un rapido calcolo capisco che arriverò a Douz ben prima del tramonto. Ottima mossa.
    Il viaggio dura 6 ore come accennato, con due velocissime soste, una per fare rifornimento a una stazione di servizio, l’altra (dove non saprei dire con esattezza) per scendere a sgranchirci le gambe una manciata di minuti. Durante il viaggio un po’ dormicchio, un po’ osservo dal finestrino il paesaggio esterno che nei già citati 500 e passa chilometri subirà notevoli trasformazioni.
    Innanzitutto imbocchiamo una superstrada veloce e dritta che nel giro di pochi minuti ci fa passare dai quartieri a ridosso del centro alle periferie meridionali della metropoli. Mi addormento la prima volta e al mio risveglio, verso mezzogiorno, stiamo percorrendo un paesaggio tipico della macchia mediterranea, con boschi di uliveti a perdita d’occhio inframezzati da lunghe file di fichi d’india. La “malefica” autostrada a pedaggio arriva fino a Gabès, seguendo la litoranea e toccando città come Hammamet, Monastir e Sfax. Quando mi risveglio la seconda volta l’abbiamo abbandonata (credo proprio a Gabès), siamo su una strada a carreggiata unica e il paesaggio è completamente diverso. Un panorama arido, brullo, fatto di terra bruciata: è come correre su un suolo marziano, di colore rossastro, dove gli unici punti di riferimento sono alture distanti. Per miglia e miglia non si scorgono paesi, città, niente di niente. Attraversiamo pochi centri urbani, senza fermarci, a parte quella sosta veloce accanto a un piccolo negozietto: ognuno dei passeggeri prende qualcosa da mangiare e da bere, che però conserverà per dopo il tramonto, ovviamente.
    Avrei fame, ma mi adeguo. I due bambini della fila centrale alternano per tutto il viaggio lunghe pause di silenzio a momenti dove diventano due pesti vivaci e insopportabili. Non toccano cibo neppure loro, mentre la madre cerca vanamente di tenerli a bada.
    Il primo grosso centro attraversato per intero è Kebili, dove la nostra strada P16 prosegue per Tozeur, mentre noi prendiamo una diramazione per Douz, uno degli ultimi avamposti della regione sud-occidentale della Tunisia. Pochi minuti ci separano dal capolinea, la stazione degli autobus della cittadina saharaiana di quasi 30 mila abitanti. E’ conosciuta come “la Porta del Deserto”, perché qui finisce la terra arida che ci sta accompagnando da Gabès e iniziano le vere e proprie dune di sabbia. Il capoluogo è tuttavia circondato da una rigogliosa oasi di palme da dattero, che caratterizza soprattutto tutta la parte meridionale, quella che porta a Ghilissia, diciamo il quartiere “turistico”, pieno di alberghi e da dove partono i tour organizzati (ma anche non organizzati…) che si avventurano a bordo di dromedari o di moto quad fra le sabbie del Sahara.
    Dalla stazione dei bus al “Sahara Douz Hotel” dove ho prenotato una notte, ci arrivo a bordo di un taxi (5 dinari). L’albergo è bellissimo, fin troppo per me, un quattro stelle strappato all’irrisoria cifra di 40 euro a notte: per la prima volta in vita mia mi capita una cosa che finora avevo visto soltanto nei film. Ho un accompagnatore che mi fa strada verso il primo piano e la mia stanza. Mi apre la porta, mi accende le luci, apre le finestre, mi chiede se la stanza è di mio gradimento. E’ una camera grande quanto un monolocale, con bagno privato, e una gigantesca finestra dalla quale filtra luce solare e la frescura dell’oasi circostante. Mi viene da ridere pensando alle tante bettole dove mi sono accontentato di dormire per risparmiare un po’ durante i miei viaggi del passato... Alla fine della presentazione rispondo che la stanza è “très jolie” e gli offro una gradita mancia.
    Sono le cinque di pomeriggio, ma qui il sole picchia molto più forte di Tunisi. Le temperature esterne dicevano 20 gradi, ma le previsioni le danno in aumento per i prossimi giorni. C’è molta escursione termica, quello sì, perché appena cala il sole il calore crolla a picco, ma non fa “freddo” come molti pensano: si scende attorno ai 12-13, non di più.
    Se attraverso la strada, di fronte al mio hotel, c’è il Café Nomade, e subito dopo un sentiero che si arrampica su una grande duna. Fa la sua impressione vederla lì, anche se la zona è battuta da un bel via vai di gente che arriva e passa o a cavallo, o in sella a qualche moto o a bordo di fuoristrada. Non è ancora il vero deserto da questa parte, è ancora terra arida, dove non cresce un filo d’erba, ma dalle sembianze scure e argillose. Quando finalmente sono lassù, invece, eccolo lì davanti ai miei occhi lo spettacolare “Erg” (che si chiama così), il deserto vero e proprio formato da sabbie disposte a dune. Non sono alte come quelle che avevo visto a Merzouga, durante il mio precedente viaggio in Marocco di sette anni fa, ma il colpo d’occhio è davvero entusiasmante: finalmente davanti a me l'infinito mare di sabbia e polvere, dove riposare il corpo e smarrire la mente, il Deserto del Sahara!
    Resto lassù a guardare questa sconfinata distesa che si protrae verso l’eternità. Scendo, cammino un po’ intorno, percorro la strada fino alla “Porta del Sahara”, una costruzione ad arco che simboleggia proprio la fine della terra e l’inizio di questo mondo senza confini (tra l’altro ogni anno da novembre a dicembre sotto questo monumento viene svolto il "Festival del Sahara" che richiama le tribù nomadi di tutto il Nord Africa).
    Lungo la strada corrono un sacco di motorini, con a bordo anche due o tre persone. A un certo punto, dall’altro lato del boulevard, due ragazzotti accostano la moto a bordo marciapiede. Quello dietro ha in mano un fucile nero con canna lunga e un calcio grande quasi quanto le mie due scapole. Si mette a mirare un paio di uccelli che appollaiati sul filo della luce si godevano un po’ di pace. I volatili, disturbati dai due tizi, si alzano in volo e scappano via. Il tipo dietro li segue per qualche secondo per la mira e penso che stia per spare un colpo, ma poi desiste. Si voltano verso di me guardandomi con due ghigni poco rassicuranti (in un baleno mi immagino che sarò derubato, fatto fuori e seppellito sotto qualche cunetta di sabbia per l’eternità). Rimettono in moto il motorino e se ne vanno guardandomi e sghignazzando in maniera poco amichevole. Poco più avanti ci sono tanti gruppetti di ragazzini che invece girano in bicicletta. Alcuni mi salutano con cordiali “Bonjour monsieur!”, altri mi chiedono gentilmente se posso dare loro qualche monetina, altri mi chiedono la stessa cosa ma in maniera non per niente gentile...
    Okay, mi sono stufato, dietro-front e torno sulla grande duna, ma c’è ancora tanto casino: turisti, avventurieri, vacanzieri a dorso di dromedario che vengono e che vanno. Allora, preferisco tornarci più tardi. Dopo la cena nel ristorante appena sotto il mio hotel e dopo il thé arabo tonificante che bevo al Café Nomade.
    - Vuoi andare sulla Grande Duna a vedere il deserto di notte? - mi domanda il ragazzo alla cassa dopo avermi dato il resto dei miei 10 dinari.
    - Sì, volevo andarci prima di andare a dormire! – ammetto.
    - Vai pure, non c’è problema. Nel deserto non ci sono pericoli e non devi avere paura.
    E chi ce l’ha paura? Penso fra me.
    Ho molta più paura di altre cose che ci pressano nel nostro piccolo mondo occidentale: la routine di tutti i giorni, la sveglia al mattino, la coda in auto di ogni mattina lungo la strada per Pavia, timbrare i cartellini, ripetere meccanicamente le stesse cose, passare le giornate con la sensazione di gettarle via senza aver fatto niente di veramente importante. E senza dimenticare la paura più grande, quella di innamorarsi puntualmente di donne sbagliate.
    L’amore, le sue illusioni, le sue conseguenze...
    Il deserto di notte non potrà mai farmi più paura di tutto questo, perché una volta che sono ancora là in cima alla “grande duna”, ma stavolta da solo, avvolto dal silenzio e dal buio di un bellissimo cielo stellato, allora non penso più a niente.
    Solo che è bello stare qui, e che ne è valsa davvero la pena esserci arrivato.

    3 – Non è ancora il vero deserto quello che inizia a Douz, subito dopo la “Porta del Deserto” o la “Grande Duna” alla fine della stradina del Cafè Nomade. Il vero Sahara è più avanti, verso sud, e per addentrarsi veramente nel senso “di deserto” come lo intendiamo nella nostra cultura di massa ho scelto di raggiungere il Camp Wad Erramal a dorso di dromedario, che sorge a due ore di “cavalcata” a sud dalla città.
    Il mio appuntamento è alle 9:00 di martedì mattina, fuori dall’Hotel Sahara Douz, dove un ragazzotto a bordo di un fuoristrada mi passa a prendere puntualmente. Facciamo poca strada. Molto prima della “Porta del Deserto”, sul lato sinistro della strada che costeggia le prime dune di sabbia, c’è un bar/café a cui ero passato davanti ieri pomeriggio. Qui scendo e una volta entrato nella sua graziosa veranda con vista deserto, come da indicazioni nel cortile, ad attendermi c’è un camelliere di nome Marzug (un uomo di mezza età, alto, scuro, vestito con un lungo velo che gli avvolge la testa e vesti arabe che gli cascano lungo tutto il corpo. Parla quasi esclusivamente arabo e pochissime parole in francese.
    I nostri dialoghi saranno più o meno tutti così:
    “ça va?”
    “Très bien!”
    E nulla più.
    Con lui ci sono tre dromedari, pronti per la traversata. E sfatiamo subito un altro luogo comune per chi non lo sapesse: i cammelli vivono in Arabia Saudita e in Asia, mentre in Nord Africa ci sono i dromedari. Sono bestioni enormi, dal pelo chiaro e giallognolo, con due occhi giganteschi che sembrano palle di biliardo scure infilate nelle orbite, un collo a zig-zag che forma una curiosa “esse”, due ginocchia per zampa negli arti inferiori (che permette loro di piegare le gambe in due punti) e una bocca lunga e pronunciata, con la quale masticano in continuazione qualsiasi cosa che raccattano dalla sabbia lungo il cammino e, quando invece soffia loro il vento in faccia, è come se fischiassero un fastidioso cigolìo tipo quello di un cardine arrugginito.
    Poche presentazioni e si parte. Marzug comanda a bacchetta i tre animali: a un suo verso gutturale e molto simile a un raschio in gola, il bestione si alza. Quando, invece, lo tira per la corda e lo tocca sui gomiti anteriori, emettendo un verso più cavernoso e profondo, quello si siede e si accovaccia per terra come un bambino ubbidiente a cui è stato detto di sedersi e di stare fermo. Sono tutt’altro che bambini, però, questi giganteschi e mastodontici camelidi, grossi come grossi cavalli di razza, ma effettivamente più docili, anche se ogni tanto qualcuno, particolarmente seccato da continui ordini e contrordini, emette un verso simile a gorgoglii che sembrano evocare i versi dei draghi sputafuoco delle fiabe di una volta. Le selle sono molto diverse da quelle dei cavalli, ovviamente, formate invece da imbragature con comodi cuscini e da un apposito reggimano a cui aggrapparsi quando sei là in alto a più di due metri dal suolo.
    Partiamo, direzione sud, verso il grande Sahara che dalla Grande Duna di ieri sembrava sconfinato e infinito. E lo è davvero. Nell’immaginario collettivo il deserto è una grande distesa di dune, più o meno piccole, di sabbia, dove non cresce un filo d’erba e che si districa così fino all’equatore. Non è proprio così. Ci sono “macchie” dove le classiche dune e dunette rapiscono lo sguardo e fanno credere sia molto facile arrampicarvici e superarle anche a piedi (altro falso mito…), ma ci sono altri tratti dove invece crescono cespugli xerofiti più o meno grandi, qualcuno abbastanza da poterci infilare sotto e ripararsi dalla potente arsura.
    Arrivo a Camp Wad Erramal alle undici passate di mattina. E’ un campeggio formato da tende a casetta (con dentro comodi letti matrimoniali), la cui disposizione in fila indiana disegna il perimetro nel lato sud ed est. Una fila di canne di bambù, ingiallite dall’aridità, invece, segna gli altri lati. Al centro vi è una grande capanna di legno, con un bel porticato sul lato meridionale, sorretto da grossi tronchi e il tetto modellato da bambù rinsecchito. Un gruppo di giovani gestisce l’area, fra chi si occupa dell’accomodamento in tenda e chi invece lavora nel ristorante, che si trova all’interno della struttura (un grosso salone con tavoli di legno massiccio e panchine disposte ai lati). Sul retro della struttura, sorgono i bagni, una baracca più piccola dotata di cessi e docce in comune.
    Dopo aver appoggiato i miei bagagli nella tenda, ho il tempo per pranzare dentro il locale e accorgermi che al momento sono l’unico ospite. Chiedo se ci sono altri “guest” e un ragazzo, in francese, mi risponde che stasera saremo in tre, mentre fino a ieri notte c’erano una trentina di ragazzi spagnoli che sono venuti fin qui per passare Pasqua e Pasquetta in maniera molto alternativa.
    Dopo pranzo mi leggo i primi capitoli di uno dei tre romanzi di Joe Lansdale che mi sono portato da casa per riempire gli eventuali tempi morti. Si intitola “Cielo di Sabbia” e il tema calza a pennello. Non crediate che di giorno nel deserto picchi un sole spietato senza un filo d’aria. Ieri e oggi, per tutto il pomeriggio, ha soffiato una brezza (a tratti anche moderata) molto fresca, che però alzava in continuazione sabbia e polvere, e che inevitabilmente finivo prima o poi di ingoiare e di riempirmi dappertutto.
    Nel tardo pomeriggio Marzug mi viene a svegliare nella mia tenda urlando qualcosa in arabo che ovviamente non comprendo. Io capisco solo che è l’ora di fare un’escursione attorno al Camp. Partiamo per una piccola gira di un paio d’ore a dorso di dromedario, girando più che altro sulle cime delle dune di sabbia che sorgono verso sud: il colpo d’occhio è incantevole. La sabbia, dapprima di colore chiaro, man mano che proseguiamo in direzione della palla solare, diventa giallognola, come quella che tipicamente si vede in molti film di avventura. La prendiamo comoda, ci fermiamo ogni tanto, mi invita a fare foto e immortalare tutto ciò che vediamo – anche se il paesaggio è sempre monotono, resta sempre davvero affascinante e vorrei scattare una foto ogni secondo. Mi fa anche delle foto lui da terra, con il mio cellulare, immortalandomi in pose epiche, tipo io a dorso di dromedario con la kefiah rossa sul volto e attorno alla testa, che più che un Lawrence d’Arabia sembro più un mujaiddin scappato di casa.
    Torniamo al campo verso sera e noto che ci sono due ospiti in più. Sono madre e figlia di origini italiane (siciliane per la precisione), che però vivono in Francia da anni e, infatti, lei parla benissimo in francese. Dopo aver assistito al tramonto (i tramonti nel deserto sono bellissimi: l’enorme palla di fuoco rossa scende e si inabissa perfettamente dietro questo orizzonte piatto e lineare) ci ritroviamo a cena. La madre della ragazzina, che si chiama Carmela, mi invita al loro tavolo. Dopo una zuppa di verdure, servono a me della carne di ovino alla brace con contorno di patata, mentre per loro due cous-cous vegetariano.
    Ci scambiamo racconti di viaggio. Loro stanno girando in auto con un autista tunisino che sta facendo da guida e stanno vedendo un sacco di cose interessanti. Per tutti è comunque la prima volta in Tunisia.
    Dopo cena ci riuniamo al centro del cortile, fra la baracca-ristorante e le prime dunette di sabbia. C’è un enorme braciere a forma circolare e davanti sono state disposte, sempre in modo da formare un cerchio, panche di legno. Ci sediamo lì, ma l’improvviso calo delle temperature (nel deserto l’escursione termica è ancora più forte) ci spinge a sederci proprio sul muretto del bordo. Restiamo ipnotizzati dalle fiamme che si sprigionano verso l’alto e dal caldo che si proietta verso i nostri corpi.
    Antoine, il loro autista, parla un italiano molto fluido. E’ stato in un sacco di posti, tant’è che che conosce perfino la zona da cui provengo io (cita testualmente: Pavia, Voghera, Tortona). Ci racconta che la primavera è la fine dell’alta stagione turistica per chi viene nel deserto, perché la punta si ha nei periodi invernali. D’estate, l’eccessivo caldo, rende la sabbia più friabile e scivolosa, e non adatta a ogni tipo di escursione (dromedari, quad, fuoristrada). In più, ricorda che proprio nei mesi di dicembre-gennaio a Douz si tiene ogni anno un gigantesco “Festival del Sahara”, dove arrivano le tribù nomadi di tutto il Nord-Africa. Bancarelle di ogni tipo sono esposte lungo la strada, mentre si balla al ritmo di danze tribali che vanno avanti tutta la notte.
    A proposito di notti: il cielo stellato del Sahara è una cosa indescrivibile. Temevo che la luna calante di questi giorni mi avrebbe tirato un brutto scherzo, invece, fortunatamente, il nostro satellite è rimasto dall’altra parte del mondo a litigare con il sole, così da non sorgere nelle prime ore di oscurità. Quando noi in Italia vediamo un cielo stellato scorgiamo solo le stelle più luminose e in mezzo fra loro il nero più nero dello spazio profondo. Nel deserto, invece, quello spazio nero è riempito da decine e centinaia di altre stelline che brillano lassù assieme a quelle più grandi. Lo spettacolo, come detto, è semplicemente meraviglioso. Vado a dormire coprendomi bene, nel letto della tenda c’è un piumone e altre due coperte. Non fa freddissimo come molti pensano; però si sta bene coperti così.


    4 - Nel deserto, se si va a dormire presto, giocoforza ci si sveglia anche presto, per cui stamattina alle 7 ero già in piedi da parecchio e il sole mi aveva preceduto di almeno un paio d’ore. Dopo una veloce colazione sono pronto per una nuova escursione in compagnia di Marzug e i suoi tre dromedari, che stanotte hanno dormito tutti qua al campo.
    Partiamo in direzione sud-est, percorrendo prima un sentiero terroso che scivola fra dune più o meno grandi. Il paesaggio diventa molto “saharaiano” proprio come lo è nell’immaginario collettivo, anche se in lontananza si intravedono piccoli arbusti qua e là. Passiamo davanti a un edificio diroccato, e poco più avanti a un’abitazione circondata da alte mura merlate e poco distante da una piccola torre. Ci arrampichiamo sulle prime dune e ci avventuriamo nell’erg sabbioso. Avanziamo un po’ a dorso di dromedario, un po’ a piedi trascinando con noi i tre docili bestioni.
    Arriviamo a quello che è un pozzo artesiano vero e proprio. E’ un artefatto moderno, posso solo immaginare a che serva nel bel mezzo del deserto, ma è inconfondibile già da lontano. Sulla piccola piattaforma di cemento è installato un archetto di ferro sulla cui sommità è appesa una carrucola. Una botola chiude il profondissimo pertugio: Marzug mi fa avviciare, scopre la botola e mi fa ammirare un pozzo che si getta nel buio più assoluto. Nascondere qualcosa qui non la faresti trovare a nessuno neppure fra mille ere geologiche. E’ comunque un buon punto di riferimento al centro di un infinito mare di sabbia e polvere.
    Dopo aver superato il pozzo risaliamo il crinale di una grossa duna, ma non prendendola per il dritto, bensì girandoci un po’ attorno e compiendo un quasi vorticoso itinerario a “U”. In linea d’aria ci spostiamo di poco, ma ci mettiamo comunque un bel po’. Dall’altra parte del crinale il paesaggio cambia stranamente. La vista del deserto continua la sua infinita distesa verso l’irraggiungibile orizzonte, ma il paesaggio è caratterizzato da grossi cespugli che di frequente spuntano qua e là. Alcuni sono piccolini, altri sono veri e propri cespuglioni di salsola. I dromedari vanno molto ghiotti delle loro foglie e dei loro rametti, tant’è che ne strappano in continuazione per poi masticarli e ruminarli per ore.
    Marzug fa segno di fermarci nei pressi di un grande cespuglio. C’è molta ombra sotto di esso e, anche se indosso la kefiah che mi ripara tutta la testa, un po’ di ombra dopo già due ore di escursione è cosa molto gradita. Ci accampiamo qui e ci restiamo quasi tutto il giorno. Raccogliamo un po’ di “secco” (alcuni cespugli col tempo si sono trasformati in scheletri giallognoli) con il quale appicciamo un bel fuoco. Nel frattempo il cammelliere, usando i tappetini che formavano la sella dei dromedari e le corde che li tenevano insieme, crea un sorta di “riparo” sotto alcuni grossi rami.
    Mi accuccio là sotto per primo, seduto con un grosso asciugamento accovacciato sulla sabbia, mentre Marzug crea la brace per cuocere il pane. Da una sacca appesa a uno dei tre dromedari, estrae un impasto di farina e lo deposita in un piccolo buco scavato fra la brace; poi lo ricopre di brace e sabbia. La sabbia, a quella temperatura, sembra quasi diventare liquida. Dopo qualche minuto estrae il pane cotto sotto brace e sabbia, e dopo averlo pulito per bene, lo spezza e ne passa un po’ anche a me. Molto, ma molto buono.
    Mangio solo io, un’insalata di verdure con l’ottimo pane cucinato alla maniera berbera. Poi, un paio di datteri come chiusura del pasto.
    Visto che ho finito il pacchetto di sigarette comprate a Tunisi, me ne offre lui una. Sono di una marca sconosciuta, non saprei dire quale, un pacchetto bianco con le righine azzurre e le scritte tutte in arabo. Sono forti come il catrame disciolto, se potessi dare un paragone il più azzeccato possibile. Dopo solo un paio di tirate, il filtro della sigaretta è già nero come una miniera di carbone di notte, ma in mancanza d’altro…
    Ci appisoliamo un po’, la brezza del deserto e l’ombra del cespuglio rendono quel piccolo giaciglio un posto davvero piacevole. Ma mentre il mio amico Merzug dorme a russa alla grande, io faccio fatica a prendere sonno. Penso a tante cose, ad altri viaggi, a un altro viaggio, di anni fa, sempre nel deserto. Penso a troppo a volte, lo so, è un difetto che non riuscirò mai a sbrogliare. Ma è impossibile affogare nelle proprie menate in un posto così fiabesco e lontano dai soliti modi di vivere, così, dopo aver scacciato finalmente morsi e rimorsi del passato, chiudo gli occhi e mi addormento anche io…
    Al mio risveglio, i dromedari sono spariti. Seppure Marzug aveva legato loro le zampette anteriori, piano piano, camminando a piccoli passi, i camelidi se la sono squagliata. Mi alzo e mi metto a cercarli, ma dei dromedari non c’è manco l’ombra. Mi arrampico sulla cima della duna più grande, mentre il vento sembra adesso soffiare più forte e alzare tanta di quella sabbia che temo una tempesta ci sorprenda e ci porti via. Dall’altro crinale si vede il pozzo artesiano dove stamattina avevamo fatto la piccola sosta, ma attorno solo dune di sabbia, di qua spoglie e gialle, di là bianchicce e puntellate di cespugli. Non si scorge anima viva, tanto meno dromedari.
    Sveglio Marzug e cerco di spiegargli la situazione, un po’ parlando in francese, un po’ gesticolando. Capisce che sono preoccupato per la scomparsa dei camelidi, ma cerca di rassicurarmi. Li va a scovare, camminando a piedi scalzi sulla sabbia fresca e asciutta del Sahara. Torna dopo una mezz’oretta abbondante, tirando i primi due alla corda e con il terzo, leggermente dietro, che lo segue come un cucciolone. Di cespuglio in cespuglio s’erano allontanati pian piano e s’erano andati ad accovacciare chissà dove. Tra l’altro, l’ipotesi di dovercela fare a piedi per tornare al Camp, balenata per qualche istante nella mia testa, sarebbe stata a dir poco folle. Perché un altro falso mito del deserto sono le distanze, che sembrano vicine, ma che in realtà non sono.
    Dalla cima della duna vedo sì il pozzo artesiano poco distante, ma poi nient’altro. L’orizzonte è un uniforme cumulo di sabbia che si protrae all’infinito a 360 gradi. Per tornare alla base bisognerebbe andare indicativamente verso nord-ovest, ma a parte il pozzo non avrei alcun altro punto di riferimento. Né la torretta, né il tetto della baracca, né la ancora più distante città di Douz. Niente di niente.
    Ci mettiamo un’abbondante ora e mezza per tornare all’accampamento, e anche quando da lontano intravedo finalmente la baracca e le tende del campeggio, dobbiamo ancora salire e scendere dune su dune prima di essere finalmente là. A piedi mi sarei sicuramente perso e avrei vagato per il Sahara per giorni. Alternativa che, comunque, una volta rientrato nella mia routine avrei comunque un po’ rimpianto di non averlo fatto.
    Arrivo alla tendopoli giusto in tempo per una doccia gelata, sistemare un paio di cose e godermi un altro fantastico tramonto sull’orizzonte piatto del Sahara, prima che il buio e le stelle dipingono il cielo e tutto quanto attorno.

    5 - Terminato di mangiare l’ottimo e abbondante cous-cous preparatomi dal cuoco del Camp Wad Erramal, sono andato subito in tenda a finire di leggere il romanzo di Lansdale, “Cielo di Sabbia”. Era buio, ormai notte fonda, e ho saputo che i tre dromedari erano scappati ancora e il povero Marzug, armato di torcia e tanta pazienza, era partito alla disperata ricerca dei tre bestioni. Ho notato da lontano il piccolo fascio di luce della sua torcia elettrica baluginare nel nero della notte, ma pian piano è scomparso avvolto dalle tenebre e dal vuoto del deserto. Non l’ho più visto, né lui, né Alì, Mustapha e Moahmed (i nomi dei tre dromedari con i quali avevo condiviso le avventurose escursioni dei due giorni nel Sahara). Avrei voluto salutarlo con più affetto di quel semplice “très bien” che continuavo a ripetere ai suoi soventi “ça va?”, per chiedermi se era tutto a posto. Sapeva dire solo quello, per il resto parlava solo in arabo. Gran parte delle volte comunicavamo a gesti, ma a un certo punto s’era creata una bella sintonia, quando abbiamo organizzato il piccolo bivacco a un’ora e mezza a sud-est del campo in mezzo all’erg sahariano. L’ho aiutato a raccogliere i ramoscelli secchi di quegli enormi cespuglioni che crescevano qua e là per accendere il fuoco, e lui tutto contento che avevo capito quello che aveva intenzione di fare, senza riuscire a spiegarmelo a parole, mi aveva abbracciato forte sorridendo e dicendomi:
    “Oui! Oui! Mon amì!”
    In quel momento aveva capito che era una brava persona, e che anche se sembrava un vecchio brontolone, che ogni tanto perdeva la pazienza e sbroccava parole incomprensibili dietro a quegli stupidoni dei suoi dromedari, voleva loro un gran bene. E amava tantissimo il deserto, il suo lavoro e la vita che faceva. Mi è seccato molto andar via senza rivederlo. Anzi, senza salutarli, compreso i tre camelidi.
    Mi sono svegliato, casualmente, la prima volta verso le quattro e mezza di mattina, che era già l’aurora. Così ne ho approfittato: mi sono infilato gli scarponcini e solo indossando la felpa e il pigiama mi sono arrampicato su una dunetta vicino al campo per vedere sorgere il sole. L’alba nel deserto, al pari del tramonto, è una cosa spettacolare. Ma forse il sorgere del solo ha qualcosa in più. Dal piatto orizzonte si vede sbucare la gigantesca palla rossa, perfettamente rotonda, che pian piano si eleva su un mondo infinito ed eterno. Soffiava una bella brezza piacevole, che dava tutt’altro che fastidio. Sono tornando in tenda contento come un bambino che aveva fatto per la prima volta nella sua vita un giro sull’autopista e ho ripreso a dormire fino alla sveglia delle 7:30.
    Dopo una veloce colazione al campo ho saluto l’unico ragazzo presente e mi sono raccomandato di salutarmi molto Marzug. Mi è venuto a prendere in auto un altro ragazzo di Douz, che mi avrebbe dovuto accompagnare alla stazione degli autobus. Abbiamo percorso a bordo del suo quattroruote un sentiero terroso che scivolava fra le dune di sabbia per parecchi chilometri, prima di imboccare una strada asfaltata che ci ha portati dritti in città. Per caso all’orizzonte ho visto un cammelliere con tre dromedari che avanzavano lentamente nella mia stessa direzione. Ho immaginato che fosse Marzug con i suoi Alì, Mustapha e Mohamed, e che stesse andando a prelevare un altro me stesso al Café Douar Selma e a riportarlo al campo come in un gioco infinito di scatole cinesi che si ripetono perpetuamente.
    L’autista della jeep che mi stava scortando verso Douz mi ha proposto, tuttavia, una buona offerta. Anziché prendere il pullman della SNTRI, cambiare a El Hamma du Jerud, attendere due ore di coincidenza, prendere un altro pullman per Tozeur, arrivare alla stazione dei bus e prendere un taxi per il nuovo albergo, mi ha proposto il servizio di un suo amico tassista, che in cambio di 200 dinari tunisini mi avrebbe portato direttamente a destinazione. Non è stato solo la comodità in sé a farmi accettare, bensì anche l’offerta di fermarsi a circa metà strada per una mezz’oretta per farmi vedere un posto molto particolare del Grande Sud della Tunisia.
    Così, una volta arrivati al Cafè Douar, scendo dalla jeep, e attendo il nuovo veicolo per andare direttamente a Tozeur. Arriva Thomer, un ragazzone alto, con due spalle grandi quanto un armadio a due piani, e due braccia grosse come i tronchi di una quercia. Parla poco francese, tanto meno italiano, anche se riesco a capire che ha amici italiani che vivono in quel di Brescia. Guida uno dei tanti taxi gialli urbani che sfrecciano in continuazione per le strade della Tunisia. Ma per portarmi così lontano (Tozeur dista 120 km da Douz) toglie dal tetto del veicolo la targa recante l’immatricolazione taxi numero 016. Mi sono venuti in mente le parole di Antoine dell’altra sera, davanti al grande falò al campo: “I taxi urbani non possono uscire dalla città, devi per forza prendere un autobus per andare a Tozeur”.
    Fatto l’ostacolo, trovata la via di fuga.
    Partiamo. La prima sosta la facciamo a Kebili, cittadina che dista una trentina di chilometri a nord di Douz, importante crocevia stradale e dei tanti bus e minivan che partono verso la capitale. Thomer mi fa segno di scendere e di seguirlo in un piccolo negozietto di alimentari, dove lui compra qualcosa da mangiare, ma da portare via (e che toccherà solo dopo il tramonto). Io chiedo se ci sono delle sigarette, ma l’anziano bottegaio mi fa segno di no. Allora Thomer mi porta a un tabaccaio poco più avanti. Ci sono le più classiche delle marche estere, ma siccome da anni colleziono pacchetti di sigarette (le marche più strane, ovviamente, vengono dall’Est Europa), prendo un pacchetto di Oris (una confezione bianca con la scritta “Oris” al centro di una “O” concentrica piazzata in alto) e uno di Caravanes (sulla cui confezione, gialla, ci sono disegnate le sagome di tre dromedari con in sella tre uomini).
    Ripartiamo in direzione ovest, verso Zaouia, scartando quindi la P16 per Gabès che avevo percorso in senso inverso arrivando con il mini-bus da Tunisi. A Zaouia c’è mercato, con tantissime bancarelle di ogni genere disposte lungo la strada principale. Avanziamo lentamente. Poco dopo si apre un luogo assolutamente incantato.
    La P16 attraversa, da est a ovest, il Chott el-Jerid, un lago salato, o meglio quello che ne resta, un’enorme distesa sabbiosa di oltre 5.000 km quadrati. Sono asciutti per la maggior parte dell’anno e ricevono acqua solo in inverno. La caratteristica più intrigante è che questi “sciott” mostrano un fondale sabbioso e argilloso cosparso di cristalli di sale. La cristallizzazione è dovuta all’intensa vaporizzazione dell’acqua. Il paesaggio è incredibilmente “marziano” (poiché comunque la sabbia rossastra ricopre gran parte delle “saline”). All’orizzonte si scorgono soltanto le alture della regione di Sfax, mentre tutto attorno è piatto deserto terroso con una strada asfaltata, che leggermente sopraelevata, ci corre in mezzo. A circa metà, più o meno al confine fra il governatorato di Kebili con quello di Tozeur (ci sono dei cartelli stradali che lo indicano) accostiamo a una piccola improvvisata area di sosta. Ci sono delle piccole baracche di legno, al cui interno uomini e donne vendono grossi cristalli di sale ai turisti di passaggio. Dall’altre parte della strada, appena giù dal terrapieno, si possono ammirare alcuni blocchi di sale, alte circa un metro l’uno, una piccola pozza di acqua salata che funge da salina a cielo aperto, e qualche futile attrazione per turisti come i resti di una barca di legno con la scritta “Titanic”. Il fondale del lago corre uniforme verso le lontanissime montagne rosse marziane, pardon, tunisine. Ma ben prima di quelle, ammiro incredulo ed estasiato il magico fenomeno della “Fata Morgana” (quello omonimo della canzone dei Litfiba), ovvero l’illusione di vedere all’orizzonte racchiuse in una stretta fascia delle inesistenti distese d’acqua. I tanto decantati “miraggi del deserto”, tanto cari a opere di letteratura, cinematografia, fumettistica e altro ancora. D’estate, con ancora più caldo, l’effetto pare sia molto più marcato. Insomma, un posto davvero ai confini della realtà. Se non fosse per il traffico, l’area di sosta “attrezzata” e la famigliola italiana intenta in acquisti di souvenir, potrei benissimo dire che io e Thomer siamo due esploratori spaziali e che stiamo esplorando per la prima volta qualche luna di Giove o di Saturno, tanto il paesaggio circostante ha così tanto dell’incredibile e poco del “terrestre”.
    Ripartiamo per Tozeur, senza più soste. Ci vuole ancora un’abbondante mezz’oretta, anche se il mio autista anziché passare per la città di El Hamma, taglia per una scorciatoia che passa in mezzo alla grande oasi di Alwad Majid. Ci rimettiamo sulla strada maestra e in pochi minuti raggiungiamo la città tanto cara al compianto Franco Battiato per i suoi “treni per Tozeur”. La ferrovia gestita dalla SNCF tunisina è ancora integra, ma purtroppo da tempo i collegamenti ferroviari sono limitati a Mètlaoui, cittadina a 55 km più a nord. Per cui, sfortunatamente, l’idea di tornare verso Tunisi con i treni citati nella famosa canzone dell’artista siciliano era tramontata già prima di partire, e di Tozeur possono restare solo “in vecchie miniere distese di sale / e un ricordo di me, come un incantesimo / e per un istante ritorna la voglia di vivere a un’altra velocità” (cit.).

    6 - Un cartello all’ingresso della città di 33 mila abitanti, capoluogo dell’omonimo governarato, recita in francese “se vieni a Tozueur, torni a vivere”. Allora, tagliamo subito la testa al toro così non ci giriamo troppo attorno. A Tozeur ci sono un sacco di attrazioni, soprattutto appena fuori città, e credo che un plebiscito di turisti ci venga solo per andare a vedere i naturali set cinematografici dove negli anni ‘70 George Lucas girò alcune scene del suo celeberrimo “Guerre Stellari” (le sequenze iniziali, dove il giovane Luke Skywalker vive con gli zii sul pianeta desertico di Tatooine). Scartando subito questa opzione, perché non ho voglia di vedere delle location cinematografiche di un film, seppur bello e pietra miliare del cinema, per vedere un ambiente riconfezionato e reimpacchettati per turisti europei (e infatti il Deserto, quello vero di Douz, l’ho assaporato come volevo io…), ho eletto Tozeur come tappa di transito lungo il mio ritorno verso Tunisi, per perdermi nelle viette della sua piccola e graziosa Medina, e per godermi un po’ di frescura della sua bella Oasi.
    Con il suo splendido palmeto, l’Oasi di Tozeur occupa oltre 1.000 ettari di superficie con un diametro di circa 3 km. E’ irrigata da circa 200 sorgenti, le cui acque unite al Ras el-Aioun (dove sono visibili i resti di un’antica diga) formano un vero e proprio fiume. All’interno dell’oasi, c’è il piccolo villaggio di Bled el-Hader, sorto probabilmente su una preesistente città romana. Capisco che girarlo a piedi è fuori discussione, e alla cieca avrebbe poco senso, così accetto l’offerta di Jamal di salire sul suo carretto trainato da un cavallo, che per soli 30 dinari mi porta a spasso per l’oasi con un giro di due ore e parecchie soste. Lo becco appena fuori dal mio albergo una volta che mi sono sistemato e complice il fatto che parla molto bene l’italiano, riesce a convincermi in fretta.
    Peccato che ne succedono di ogni, tipo bambini che saltano a bordo del carretto, che non se ne vogliono più andare e lui deve minacciarli con il frustino, intrufolarci in porzioni di proprietà privata per ammirare alcune piante di banane, rubare di nascosto delle rose da un’aiuola fiorita per regalarle a sua figlia, fuggire dall’abbaiare di cani inferociti, quasi capottarci con il suo carretto lungo una discesa ripida, restare sul calessino messo di traverso lungo la strada, mentre lui scende a comprare del pane e del fieno, lasciando me in balia di occhiatacce di autisti di motorini e di auto. Ma il giro “guidato” si rivela azzeccato: dopo avermi raccontato della sua vita (ha girato per lavoro mezza Europa e ora si gode questo mestiere) mi racconta che molti italiani vengono per turismo a Tozeur e alcuni negli anni si sono addirittura comprati una seconda casa.
    Torniamo in città, proprio davanti al Residence El Rich (il mio albergo), puntuali come la preghiera del tramonto che magicamente si diffonde dalle torri delle moschee di tutta la città.

    7 - “Nei villaggi di frontiera guardano passare i treni / le strade deserte di Tozeur / da una casa lontana tua madre mi vede / e si ricorda di me, delle mie abitudini / e per un istante ritorna la voglia di vivere a un'altra velocità / Passano ancora lenti i treni per Tozeur…” (cit.).
    Purtroppo, come già raccontato in precedente paragrafo di questo diario di viaggio, i treni non passano più per Tozeur, vecchio capolinea della linea ferroviaria da Tunisi. Il traffico ferroviario è limitato a Mètlaoui, cittadina di confine del governatorato di Gafsa a oltre 50 km a nord della città che ispirò nel 1985 la celebre canzone di Franco Battiato. Tra l’altro, perfino da Mètlaoui vi arriva e vi parte un solo treno al giorno, perché la maggior parte dei convogli ferroviari tunisini si attestano al massimo a Sfax e a Gabès (lungo la costa), a circa 90 km dall’isola di Djerba, verso il confine libico. Ieri mi sono recato a piedi alla vecchia “gare des trains”, ma trovandola in stato di desolante abbandono. Su una panchina del primo binario un uomo, che indossava una camicia bianca con la scritta “sécurité”, me l’ha confermato.
    - Y a-t-il un train pour Tunis demain matin?
    - Non, monsieur! Ni demain, ni après-demain, ni plus. Il n’y a pas de trains d’ici! Dois aller à la gare routiere (=’stazione dei pullman’).
    Il sito delle ferrovie tunisine (www.sncft.com.tn/) nella sezione “Grande Lignes” mette (ancora) una vecchia partenza di un unico treno alla mattina alle 6:30 per Tunisi. Ma guardando meglio nella sezione “Transport voyaguer / Horaires” il quadro della linea Tunis – Sousse – Monastir – Sfax – Tozeur fa terminare inequivocabilmente la circolazione dei treni a Mètlaoui. Non so come mai: traendo semplici ipotesi posso immaginare che i costi di manutenzione per una ferrovia che corre in mezzo a un deserto (per ovviare allo smussamento della massicciata su un terreno argilloso e friabile, alle rotaie che si dilatano per l'eccessivo calore, ecc...) siano fuori portata per la Societé Nationale des Chemins de Fer Tunisiens, che ha preferito devolvere l’offerta di trasporto pubblico ai tanti pullman che fanno nord-sud e viceversa. Resta un vero peccato, perché attraversare il deserto a bordo di un treno sarebbe stato a dir poco fiabesco.
    E' stato meno fiabesco farlo in pullman, ma ugualmente bello.
    Alle 7 in punto un taxi mi porta alla “stazione dei bus”, che sorge poco distante dalla vecchia e ormai in disuso stazione ferroviaria. C’è già molta gente del posto a quest’ora che parte per svariate destinazioni. Chi verso la costa, chi come me aspettava il bus della SNTRI per la capitale. Acquisto un biglietto di sola andata per 30 dinari (meno di 10 euro) per compiere 440 km verso il nord della nazione.
    Il bus parte mezzo vuoto e lascia la città in direzione di El Hamma du Jerid. Il deserto ci accompagna per parecchi chilometri e il paesaggio fuori dal finestrino è davvero affascinante. Il sole cade a picco lungo la piccola strada P3 che costeggia per lunghi tratti le vecchie rotaie abbandonate in direzione di Mètlaoui. Percorriamo un itinerario diverso da quello che avevo fatto per raggiungere prima Douz e poi Tozeur, lasciando le alture di Dghoumès (quelle colline di colore rossastro che sullo sfondo dello “Sciott” del Jerid avevo definito “marziane”) alla nostra destra. Fino a Gafsa lo scenario è questo: non è l’Erg sabbioso di Douz, ma è comunque un vero e proprio deserto di terra bruciata dal sole e dove non si vede un solo artefatto umano. Ma dalla cittadina capoluogo del suo governatorato le cose cambiano. Già qui sale parecchia gente, che affollerà il bus fino al capolinea. Il deserto resta alle nostre spalle e magicamente il territorio circostante inizia a mutare, con la terra assume un colore più scuro e spuntano sempre più frequentemente uliveti e file di fichi d’india lungo la strada percorsa.
    Per mia grande gioia evitiamo l’autostrada che costeggia la litoranea mediterranea, preferendo percorrere strade interne che attraversano paesini e cittadine di medie dimensioni. Ammiro di tutto: mercati in strada, motorini che portano a bordo due e anche tre persone per volta, macellerie che espongono appese fuori grossi pezzi di carne di manzo (e in maniera più macabra anche teste di povere mucche…), murales e scritte sui muri che inneggiano alla politica (volti di Arafat, bandiere della Palestina, ecc.) o alla cultura “hooligans” locale: quello che mi colpisce di più è che molte di queste sono scritte in italiano, tipo “Siamo solo noi”, “Curva Sud”, ecc.. Una sorta di imitazione del modello italico (come noi, invece, copiamo da toponimi anglosassoni per dire “ultras”, “hooligans”, “fans”, ecc.).
    Il tassista che mi porterà dalla gare routiere di Tunisi Sud verso l’albergo – e che parla un italiano davvero fluente – mi racconterà che in Tunisia il calcio italiano è molto seguito (lui stesso tifa l’Inter, per esempio), anche se da loro il club con più sostenitori è l’Esperanza (diminutivo di Espérance Sportive de Tunis), squadra che milita nella massima serie del campionato di calcio tunisino e che gioca le partite casalinghe allo stadio olimpico “Radès” (65.000 posti di capienza). Nella sua lunga storia, che inizia nel 1919, l’Esperanza si è confermata la piazza più titolata del Paese, sfoggiando nel proprio palmarès 32 scudetti, 15 Coppe Tunisia, 4 Champions League d’Africa, 3 Champions League arabe, e svariati altri titoli continentali. Oltre a essere la più grande squadra tunisina, è anche fra le più forti di tutto il continente africano. Il tifo organizzato si raccoglie attorno alla Z.E. (acronimo di Zapatista Esperanza): da nord a sud della nazione mi sono spesso imbattuto in scritte sui muri del tipo “Z.E.09”, viste perfino a Douz, nel profondo Sud del Paese, a testimonianza che è davvero la squadra calcistica più seguita e osannata.
    Tornando al mio viaggio, dopo aver lasciato Gafsa, proseguiamo inizialmente verso est, ma senza raggiungere mai la città marittima di Sfax, perché a un certo punto puntiamo verso nord, esattamente a Qayrawan. Facciamo una breve sosta davanti a un bar/cafè: un po’ di gente scende per sgranchirsi le gambe o acquistare qualcosa da mangiare per questa sera dopo il tramonto. Il paesaggio ormai si è fatto molto diverso, adesso siamo immersi in un ambiente da tipica macchia mediterranea, contornata da uliveti a vista d’occhio. Verso la successiva cittadina di Enfida, a oriente, si inizia a intravedere anche l’azzurro Golfo di Hammamet.
    In aperta campagna, di punto in bianco, l’autobus si accosta a bordo strada e salgono due controllori. Controllano i biglietti a tutti i passeggeri, me compreso: siamo tutti in regola. I due tizi scendono e il pullman può ripartire. Non passiamo dentro ad Hammamet, ma la tagliamo fuori andando a prendere soltanto il tratto finale della A1, che by-passa il promontorio e la penisola di Capo Bon. Mi addormento (dopo lunghe cinque ore e mezza di viaggio) e quando riapro gli occhi il pullman sta entrando dentro la “gare routiere sud” di Tunisi. Qui l’autostazione è davvero affollata, piena di pensiline, marciapiedi, bus in partenza, bus in arrivo, viaggiatori che salgono e scendono, e file enormi davanti alle biglietterie all’interno dell’edificio.
    Mi aggancia subito un ragazzotto sui trent’anni, che come tanti altri tassisti, sembrava lì ad aspettare me. A tornare all’Hotel Tunisie Confort di rue Marseille ci mettiamo davvero tanto, imbottigliati in un traffico molto più intenso dello scorso fine settimana. L’autista – che come già detto parla un ottimo italiano – mi dice che è venerdì pomeriggio (sono passate le ore 15:00 da poco) e che in tempo di Ramadam tutti smettono di lavorare più o meno a quest’ora e quindi, di conseguenza, le strade vengono prese d’assalto dai pendolari che tornano a casa. Poiché la pratica islamica impone il digiuno dall’alba al tramonto (lo “Sawm”, “come guida per gli uomini e prova chiara di retta direzione e salvezza”, cit.) la giornata lavorativa è dimezzata per tutto il mese lunare. Il giovane mi dice che durante il giorno non si può bere, non si può mangiare, non si può neanche fumare una sigaretta. Solo dopo il calare del sole, “uno può fare tutto ciò che gli piace fare nella vita” mi risponde.
    - E’ molto dura? - chiedo ingenuamente.
    - Adesso, in questa stagione, no. E’ molto più difficile quando cade in estate: qua ci sono 50 gradi e stare tutto il giorno senza bere un solo goccio d’acqua, beh, lì sì che è molto dura.
    Ho già notato, comunque, già dai primi giorni dopo il mio arrivo in Tunisia che l’osservazione di tutti i precetti islamici è molto forte e raccoglie pressoché l’assoluta totalità delle persone. Non ho visto molte donne con il burqa integrale, ma molte – perfino le bambine che a Tozeur uscivano dalle scuole a mezzogiorno – indossano il velo o un foulard intorno alla testa, che scopre loro solo il viso. Chi non indossa il velo è spesso una turista di passaggio. Durante il giorno i locali, i bar e ristoranti sono pressoché vuoti: si serve da mangiare e bere solo ai viaggiatori occidentali come me. In località non turistiche, come nei paesi attraversati da Tozeur a Tunisi, i fast-food o i ristoranti hanno le serrande abbassate: in quelli aperti la gente entra solo per comprare del cibo da asporto (e che non mangerà prima del tramonto). Non ho trovato un goccio d’alcool, nemmeno l’ombra di una birra, in questo girovagare da nord a sud, a ovest e poi ancora a nord, perché le bevande alcooliche in terre mussulmane sono bandite.
    Tunisi vive tutte queste pratiche nella massima normalità, le vie della capitale sono un brusio continuo di rombi di motori, di schiamazzi di bambini, un formicaio di gente che passeggia e parla fra loro, o chatta con i telefonini, e così pure lo è la rue de Marseille che osservo dall’alto del balcone del terzo piano del mio albergo. Ma quando cala il sole, puntualmente, le TV e le radio nazionali trasmettono tutte la “preghiera del tramonto”, e la città si svuota e si zittisce di ogni piccolo bisbiglio, e in un surreale silenzio, forse paragonabile solo a quello che c’era in mezzo al deserto di Douz, echeggiano unicamente i canti dei Muezzin dalle moschee di tutta quanta questa sconfinata metropoli. La città tornerà presto a riempirsi di gente e di voci, ma per il momento, adesso, là fuori mi sembra di essere ancora nel Grande Erg del Sud.
    Ed è già nostalgia, una tremenda nostalgia, per domani, quando un volo aereo mi riporterà nel mio Paese. E una volta a casa di tutto questo straordinario viaggio in fondo al mio zaino resteranno soltanto tre pacchetti di sigarette, un paio di banconote con un po' di spiccioli di dinari tunisini, dei biglietti da visita, le quattro fiale di olio per il corpo comprate nella Medina di Tunisi, una pietra raccolta fra le dune dell'erg (che mi aveva regalato Marzoug), un po' di sabbia e già tanta nostalgia.
    Ma nella mia testa, invece, vivranno anche così lontani i ricordi indelebili dei cieli stellati del Sahara, della genuinità delle persone conosciute, dei chilometri di strada affrontati in treno, in minibus o in sella di dromedario, degli ipnotici canti dei muezzin delle moschee al tramonto, del sorgere del sole nel Grande Deserto, e soprattutto del senso di pace e benessere provato in quell'infinito mare di meravigliosa solitudine e vera libertà.

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