MIRKO CONFALONIERA


Replying to CRONACHE DALLA LOUISIANA PAVESE

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  1. Posted 8/11/2020, 16:17
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    CAPITOLO 1.
    "Prismata", "canale", ecoscandaglio, bass boat, il "piede", il "prato"... Il mondo fluviale è tanto complesso quanto bello, e lo penso onestamente già quando io e Nico siamo ancora nell'officina di Sergio Barca di Tornello a fare gli ultimi ritocchi alla piccola Glastron acquistata in comproprietà con due amici - anche se oggi per il suo battesimo d'acqua ne manca uno. Vengo sommerso da una serie di termini tecnici che faccio fatica a comprendere. Nico è un esperto di fiume, c'è praticamente nato su una barca e in questo micro mondo che si sta lentamente aprendo ai miei occhi sembra sguazzarci dentro come un pesce di fiume. Prepariamo la miscela di benzina e olio nautico dentro a un serbatoio attaccato direttamente al 25 cavalli che abbiamo montato a poppa. Il mondo delle barche richiede una gigantesca conoscenza meccanica di tutto ciò che c'è dietro. Io sono conscio di partire da zero e sarà una lunga strada prima di riuscire ad avere padronanza di tutto ciò che mi circonda.
    Sergio a bordo della sua berlina traina, montata su un carrello, la bass-boat al di là del ponte sul fiume, dove c'è il circolo nautico degli Amici del Po. Io e Nico gli andiamo dietro, attraversando il ponte della Becca con stati d'animi diversi: per lui è un ritorno dopo qualche tempo di pausa alla sua più grande passione di sempre, per me è il primo giorno in assoluto di barche, motori e navigazione fluviale. Una passione per il fiume sbocciata da poco, ma covata dentro di me da parecchio tempo, addirittura fin da bambino. Negli ultimi anni sul Po ho scritto di tutto, articoli di giornali, ambientazioni di romanzi, ho girato cortometraggi e un paio di documentari amatoriali. C'era abbastanza carne sul fuoco per fare il grande salto e finalmente eccomi qua.
    Alla Becca gli addetti del Centro Nautico avvinghiano la barca con funi e poi un argano semovente la solleva la deposita poco più sotto di noi, dove scorre l'acqua del Ticino. Scendiamo al molo e saliamo a bordo. Accendere il motore del 25 cavalli può sembrare semplice come mettere in azione un comune tosaerba da giardino, ma non è così, o almeno non lo è per me. Ci provo qualche volta, ma il tirante è duro come l'acciaio e riesco anche a farmi male alla mano. Bisogna assicurarsi che la leva del cambio sia in folle e l'acceleratore al minimo. Riuscirò a metterlo in moto quasi al primo colpo solo in mezzo al fiume, dopo altri tentativi e l'invidia provata per Nico, perché lui è riuscito a farlo partire al primo schiocco di dita, come un mago che ha estratto il classico coniglio dal cilindro del cappello.
    All'inizio l'amico si mette al volante e io assisto alla prima uscita in mezzo al Po della mia vita dopo i tanti viaggi lungo i suoi argini e le tante ore passate su qualche sponda a contemplare la sua bellezza. La piccola barca di colore verde-nero parte a razzo e sembra volare sulla piatta e calma superficie del fiume. Andare in mezzo al Po con lui è come farsi un giro nello spazio a bordo di un'astronave assieme a Juri Gagarin che guida a occhi chiusi fra le stelle. La sua esperienza gli fa intuire i punti da evitare, perché l'acqua è bassa, e quelli invece dove poter navigare tranquillamente. Ma ci affidiamo, comunque, all'ecoscandaglio, un aggeggino elettronico montato accanto al volante, che ci indica quanto è profondo il fondale sotto di noi. Nonostante il periodo di secca, si naviga sui 3-4 metri di profondità, ma toccheremo punte anche di 7 e 8.
    Ci fermiamo per la prima sosta, avvicinandoci a una piccola spiaggetta che emerge dalle acque in mezzo al Po - che l'amico aveva già visto da lontano. Con cautela e prudenza riusciamo nell'intento di arrembare il piccolo isolotto senza danneggiare l'elica o lo scafo.
    «Qui si può fare il bagno!» mi dice Nico.
    Non perdo tempo e in un attimo sono giù in acqua, che ha un colore chiaro, pulito e che sicuramente non ha nulla da invidiare a più blasonate località balneari estive. Il livello del fiume mi arriva al bacino, il posto è tranquillo. Bagno rinfrescante dalla testa ai piedi, credo il primo in assoluto della mia vita in mezzo al "Grande Fiume". Si riparte in direzione del ponte di Spessa, questa volta con me alla guida. Leva dell'acceleratore, leva del cambio, volante. E' quasi come andare sull'autopista, ma siamo in un universo azzurro, con le sponde molte distanti fra loro e sotto un sole che picchia senza pietà. Proseguo dritto, ma la profondità diminuisce gradualmente, fino ad arrivare a circa 2 metri. Nico, allora, mi fa segno di spostarmi a sinistra, lungo la costa alta e a strapiombo (lui dice che si chiama "prismata" per via della presenza di grossi caratteristici sassi), dove il fiume è più profondo, anche se decentrato rispetto alla sua metà.
    «Evita le zone con spiagge e ghiaioni e tieniti sempre lungo le coste alte, perché l'acqua lì è più profonda» mi hanno detto.
    Non è così semplice, però: altre insidie preoccupano i barcaioli meno esperti del Po. Nico mi dice che bisogna guardare il colore dell'acqua e dove è più "liscia" oppure "increspata". Lui sa subito dove navigare, io mi devo affidare all'ecoscandaglio come un viandante del deserto che segue la stella polare come sua unica via di salvezza.
    Gli scenari sono bellissimi e mi lasciano a bocca aperta: la natura selvaggia e nuda che circonda le sponde del Po catapulta immediatamente in un mondo lontanissimo dalla nostra usuale routine. Non sembra più di essere in provincia di Pavia, di vivere a Castelletto Po, in quella Lombardia calda, umida, afosa e zeppa di solite meccaniche ripetizioni esistenziali. E il Po non è più quel fiume che attraversiamo di mattina con assoluta indifferenza o nonchalance per recarci a lavoro: ora è la strada che ci guida dritti in questo ultimo paradiso perduto e dimenticato dagli uomini.
    Anse, curve, grossi rami che galleggiano, rocce che scendono dalle coste, relitti di barche abbandonate, finché finalmente appare il ponte di Spessa. Decidiamo di accostare all' "Avamposto", un caratteristico ristorante che sorge sulla sponda destra: l'intero del locale sorge su una vecchia chiatta e si può ammirare il fiume dagli oblò dell'interno, ma noi preferiamo accomodarci al dehors esterno, sempre posto sulla riva e con una vista davvero meravigliosa. C'ero già stato altre volte, ma questa è la prima che ci arrivo via fiume. L'attracco di Marco è pieno, così decidiamo di attraccare a quello successivo, che pare un po' abbandonato. In realtà, serve una house-boat posta più in alto sulla sponda, nei pressi della storica motonave Beatrice.
    Raggiungiamo il locale a piedi, ci accomodiamo e ordiniamo due piatti di sardine fritte con insalata e mezzo litro di vino bianco della casa. Nico attacca bottone con un trio di ragazzi seduti al tavolo accanto a noi: sono barcaioli e appassionati di fiume. Si parla di Po, di pesci siluro, di racconti di pescati leggendari e di me al primo giorno di fiume (e si leva un brindisi spontaneo di "auguri" e "cento anni di barca" cit.).
    Dopo un giro di digestiva grappa, ci rimettiamo in cammino e torniamo all'house-boat, ma ora nel piccolo giardino accanto ci sono seduti un gruppetto di signori anziani attorno a un tavolo: bevono vino e discorrono del più e del meno. Per tornare alla barca dobbiamo passare in mezzo a loro e poi scendere fino al pontile: allora, capisco che abbiamo attraccato in una proprietà privata. Ci scusiamo per quello, sperando di non aver dato fastidio, ma all'opposto l'allegra compagnia ci invita a sederci con loro a bere e fare due chiacchiere. L'alcool e la baldoria vanno a mille, così come i discorsi su quando si faceva tutti il bagno in Ticino e in Po, prima di preferire le località marittime e le piscine, e abbandonare questo patrimonio naturale. La delusione per queste cose già constatate purtroppo in passato lascia il posto a un gran senso di pace e di benessere che ci circonda. La vista sul Po si apre in tutto il suo splendore, fino alla spiaggia dirimpettaia di Spessa, al ponte ferrato della provinciale per Pavia e alla natura più incontaminata.
    Salutiamo i simpatici vecchietti che ci hanno offerto più giri di vino rosso e riscendiamo alla barca. Nico è preoccupato perché teme che il serbatoio potrebbe lasciarci a piedi in mezzo al fiume.
    Come si fa a capire quando sta finendo la benzina visto che non c'è alcun segnalatore? - gli avevo chiesto stamattina.
    Cosa si fa se si resta stanza carburante in mezzo al Po? - altra domanda che non aveva ricevuto alcuna risposta...
    Avevo intuito che è meglio non restarci mai.
    In "salita", cioè controcorrente, il motore consuma e "beve" di più, ma nonostante i nostri timori alla fine riusciamo a tornare alla Becca e a proseguire verso l'imbarcadero Idrometro, che si trova sul fiume Ticino poco prima della sua confluenza in Po. La casa nella nostra "Mercury" (già così battezzata da un adesivo che compare sul lato sinistro) sarà questa, nonché base di partenza per le prossime avventure e perlustrazioni fluviali. Io dovrò imparare pazientemente a saper governare l'imbarcazione, a essere autonomo e indipendente anche in caso di necessità. Ci vorrà tempo e pazienza. Aver investito nell'acquisto di una barca significa intraprendere un nuovo e forse meno convenzionale - ma sicuramente più avventuroso - modo di viaggiare. E visto che nel recente passato molti miei viaggi on the road hanno sempre riguardato strade lungo il fiume verso la foce in mare, non nego che il sogno sarebbe quello di partire da Pavia e arrivare in Adriatico via fiume.
    "Il viaggio della vita", come disse una volta un mio amico a cui gliene accennai....
    Ma, come si suol dire in simili frangenti, questa è un'altra storia..............

    CAPITOLO 2.
    Sabato di inizio agosto come da copione. Giornata calda, umida, forse la più terribile di questa estate, che da l’impressione che non allenterà mai la sua morsa. L’ideale sarebbe starsene chiusi in una cantina o in una ghiacciaia, ma io e Nico non molliamo la presa. D’altronde viviamo nella Louisiana Pavese, siamo lupi di fiume (io un neofita, lui un maestro) e stare lontano dal "Mississipi Padano" dopo la prima escursione di qualche giorno fa è come dire a un bambino di scendere dalla giostra appena dopo che ha vinto un altro giro.
    Ritrovo ore nove di mattina alla stazione di servizio lungo la SS Bronese, per fare rifornimento di benzina per il serbatoio, fare colazione, fumare un paio di sigarette e cercare di capire se dietro il bancone è più bella la barista biondina italiana o la cinesina dai capelli neri. Si riparte su due auto per l’imbarcadero Idrometro, al di là del Ponte della Becca, e del semaforo con senso unico alternato che cra lunghissime code, che ci fanno solo salire a mille la voglia di essere già sulla nostra Glastron per salpare a tutta birra senza ritorno.
    Arriviamo al molo, pochi minuti per caricare a bordo il tutto e finalmente si mollano gli ormeggi della nostra bass-boat di color verde-nero. Scendiamo il Ticino come da copione, superiamo il circolo nautico della Becca e dopo poco ci buttiamo in fiume Po. Anche se Nico mi dice che il Ticino e il Po in realtà scorrono paralleli e divisi ancora per parecchie miglia prima di diventare davvero tutt’uno. Si vede infatti una nitida linea di demarcazione: il Ticino, sulla sponda sinistra, ha un colorito più chiaro, azzurrognolo, dalla temperatura fresca e con una maggiore quantità di “verde” galleggiante (erba, alghe, ecc.), mentre il "Grande Fiume" si distingue bene al di qua con la sua solita tonalità più scura, la temperatura più calda e i "sabbioni" che affiorano all’improvviso dal nulla. L’incubo dei barcaioli. Ma non per un esperto di fiume come Nico. A un certo punto l'amico vede l’isolotto stagliarsi a filo del livello dell’acqua da quando ancora non passiamo davanti alla famosa spiaggia dei naturisti. In bella vista ogni graziosità anatomica femminile. Qualche ombrellone, poca gente, molti hanno rinunciato a un weekend sul fiume per via del caldo, già fastidioso e siamo ancora in tarda mattinata. Decidiamo di attraccare lì.
    La prua dell’imbarcazione si appoggia dolcemente sul piccolo sabbione come un biscotto che si tuffa in un vasetto di marmellata. Il fondale è basso, visibile a vista d’occhio, ma quando scendiamo le gambe sprofondano fino alle ginocchia nella sabbia scura, viscida e melmosa. Si cammina così, in pochi centimetri d’acqua, ma è una mezza impresa fissare l’ancora, raddrizzare la barca e concederci pochi minuti di relax. Meglio galleggiare, ma tenendosi aggrappati in qualche modo alla nostra Glastron, perché la corrente è forte anche in questa tazzina d’acqua. Poco più avanti c’è uno scalino, il fondale va giù a picco e il Po tira come un buco nero che nello spazio risucchia tutto ciò che lo circonda, fra mulinelli e vortici. Il pensiero va a tutte le storie di persone morte annegate in questi fiumi, anche di recente. Anche la settimana scorsa. Resto aggrappato alla scaletta vicino al motore, trattenendomi più saldamente dell’ancora incagliata sul sabbione.
    Si riparte e guido un po’ io. C’è la prima ansa che curva verso destra, ma devo stare incollato sulla metà sinistra (quella “ticinese”) per due motivi: l’ecoscandaglio che mi segnala che sotto c'è il "canale" - la profondità giusta (e mi impedisce di andare a spaccare l’elica dove il Po fa il cosiddetto “prato”) - e l’isolotto sulla destra che Nico continua a dirmi di stare al largo. Navigo a destra, verso la costa "prismata". Abbandonati gli ultimi spiaggioni di Tornello inizia la parte più bella dell’avventura di oggi. Lasciamo alle spalle i bagnanti, i pochi ombrelloni, un paio di barche e canotti che girovagano fra il Ticino e la Becca, e ci immergiamo nella natura più selvaggia della nostra zona. Da un attimo con l’altro mi accorgo di essere in mezzo al nulla. Non c’è più anima viva, nessuna barca incrociata, nessun pescatore, niente di niente. Il Po raddrizza il suo corso e magicamente la provincia pavese (seppure ci siamo ancora dentro) sparisce inghiottita da una sorta di varco ultra-dimensionale. Potremmo essere ovunque e in qualsiasi periodo storico che non noterei differenze. Una sponda alta, con una costa che si fa sempre più ripida, e una di là, con spiaggioni talmente grossi che sicuramente si fa prima a raggiungerli via fiume. E in mezzo solo tanta acqua, una distesa di fiume che sembra un deserto azzurro infinito nello spazio e nel tempo. Alberi, verde, uno stormo di gabbiani sulle rive che ci fissa in maniera curiosa e silente. Un paradiso selvaggio e incontaminato, oggi riservato solo a noi due, spavaldi esploratori solitari di questo pianeta ai confini dell’universo. Vicino allo spiaggione di San Giacomo attracchiamo alla bene e meglio - lo fa Nico, che prende il cambio alla guida.Nel pomeriggio imparerò anche io a planare dolcemente la barca finché la prua non si appoggia sul fondale di uno scalino e si può gettare l’ancora per fissare l'imbarcazione in maniera parallela alla corrente, in modo da tenerla diritta e ferma.
    Il nuovo bagno è completamente diverso e Nico mi spiega perché siamo sulla sponda sinistra, ovvero dove scorre ancora la corrente del Ticino, menefreghista della confluenza che ci sarebbe dovuta essere ormai qualche miglia più a monte. Acqua più pulita, forza dolce e moderata, temperatura piacevolmente fresca e fondale più duro e guadabile. Continuiamo la discesa lungo il tratto rettilineo più lungo di fiume, finché dopo la successiva ansa iniziamo a intravedere gli ormeggi dell’ "Avamposto", delle casotte più a valle e della motonave Beatrice. La sponda destra si alza fino a formare una sorta di scogliera alta quasi quattro metri: precipita giù a fiume in maniera retta e perpendicolare, con alti fusti arborei che si stagliano fin sulla cima e che ci fanno finalmente un po’ di ombra. Superiamo la foce del torrente Versa e subito dopo i tre luoghi sopracitati, raggiungendo il ponte di Spessa. Decidiamo di fermarci esattamente sotto una sua arcata, chiedendo asilo alla fresca ombra. Ci ancoriamo a uno dei tanti tronconi che, trascinati dalla corrente, hanno formato una sorta di diga in prossimità di uno dei piloni. Si sta bene e con una birra in corpo (custodita saggiamente in un frigo portatile) si sta ancora meglio.
    Nico estrae dallo zaino il pranzo: in recipienti di plastica passa in rassegna pasta fredda e risotto coi funghi. Poco dopo aver finito di pranzare, fumato una sigaretta a testa, ci concediamo una pennichella altrettanto ristoratrice: ci sdraiamo sulla barca, sonnecchiando dolcemente cullati dalle onde del fiume e vezzeggiati dall’ombra. Mi sembra davvero di essere un novello Tom Sawyer dei nostri tempi, che con il suo fido compare Huckleberry vanno alla scoperta del grande Fiume "Mississippi".
    Al risveglio ci rimettiamo in cammino, proseguendo ancora a valle, puntando verso l’Imbarcadero di San Zenone. Tagliamo il grosso corso d’acqua praticamente in linea diagonale, avvicinandoci verso il punto dove confluisce il torrente Olona. Acqua bassa e imbarcadero che poggia malinconicamente in maniera inclinata sulla sponda dell’affluente: locale chiuso e nessun’anima in giro. Peccato. Una rinfrescante birra e due chiacchiere con la sempre arzilla signora Silvana sarebbero state la ciliegina sulla torta di una seconda giornata sul fiume già sopra le righe.
    Decidiamo di risalire lentamente, anche se ovviamente la “salita” è molto più lunga e lenta. Il sole picchia spietato, brucia la pelle, disidrata in continuazione i nostri corpi che non riescono neppure a rinfrescarsi dall’aria battente (calda anch'essa). Così, nei paraggi dell’ansa di San Cipriano siamo obbligati a fare una sosta e a buttarci capofitto in acqua, in un punto dove il fondale è abbastanza basso e si può galleggiare senza paura. Da ovest arriva un barcé con a bordo tre giovani pescatori: sono amici di Nico e dopo i rituali convenevoli, anch’essi ormeggiano da quelle parti e si buttano giù. Si ride, si scherza, si parla che c’è poca acqua e pochi pesci, delle persone annegate in Ticino a Pavia, che sulla nostra barca ci vorrebbe un motore a 50 cavalli per andare più forte e consumare meno, e di leggende di pesci-siluro giganteschi pescati da queste parti. I tre amici ripartono in direzione di Arena Po. Ci salutiamo, ritiriamo l’ancora, ma dopo ancora poco il caldo ci costringe a un’ulteriore tappa. Alla spiaggetta di San Giacomo nuovo bagno e di nuovo soli in mezzo alla natura.
    «Dobbiamo prendere un motore più potente! – mi fa Nico, mentre i nostri corpi sono immersi nel fiume- Soprattutto se voi volete fare quel famoso viaggio fino a Venezia».
    Mi basterebbe arrivare a Porto Tolle (foce in Mare Adriatico) per realizzare un sogno che forse ho fin da bambino e che sono vicino ad accarezzare.
    Mi volto verso est, osservo il fiume che scorre in quella direzione: là, dove la corrente trascina tutto e porta via, e dove un giorno, costi quel che costi, navigherò per realizzare quell’utopia.
    Una volta risaliti a bordo e salpiamo. Il sole cocente e la fitta vegetazione lungo le sponde accompagnano la nostra risalita verso l’imbarcadero di Pavia.

    CAPITOLO 3.
    Terza uscita sul Grande Fiume Po, alias “Mississipi Padano”. Mai soprannome più azzeccato come oggi, sabato di fine agosto: giornata calda, torrida, afosa fin da stamattina. Nico non c’è, così io e Juri (il terzo comproprietario della barca) ci diamo appuntamento al bar Mary Flowers di Castelletto Po. Piccola reunion fra vecchi amici, poi io e lui partiamo in auto in direzione dell’imbarcadero Idrometro. Oggi, senza Nico, sarà la prima vera uscita solitaria: alle spalle ho solo due sole lezioni per accendere, guidare e padroneggiare una barca: basteranno?
    Arriviamo all’Idrometro con la tanica piena di benzina e l’olio nautico per fare la miscela, la batteria carica per far funzionare l’ecoscandaglio e una buona dose di spirito d’avventura. Montiamo, colleghiamo il tutto e si parte. Stesso percorso di sempre, si salpa in direzione del ponte di Spessa, già sapendo che comunque ogni viaggio sarà un’esperienza diversa e ogni tragitto, anche se identico a quello precedente, riserverà sempre sensazioni, pensieri, riflessioni e nonsoché unici.
    Ponte della Becca, un gigante di ferro e cemento che taglia l’orizzonte appena partiamo, con me alla guida e con Juri seduto a prua per bilanciare il peso sulla nostra Glastrom. Navighiamo il fiume in un sabato mattina ancora acerbo e privo dei tanti bagnanti che affollano le spiaggette a ridosso del porticciolo della Becca e delle caratteristiche case galleggianti che ci sono subito dopo. Mi anima sempre quel sogno e quell’utopia di quel Viaggio che sia io che Juri abbiamo ben fissato nella mente fin da quando, da qualche tempo, ci siamo detti più volte: “Ma perché non scendere il Po fino a Porto Tolle alla foce in Mare?”. Lo stiamo realizzando, penso, mentre osservo le case galleggianti, subito più a valle del porticciolo e dell’area attrezzata del Centro Nautico, che mi ricordano tanto le house-boat sul Delta del Po. Terra di viaggi e on the road a me molto cari.
    Andiamo avanti, nonostante il motore ogni tanto dia qualche colpetto strano, con l’insita utopia e fissazione che navigheremo questo fiume costi quel che costi, anche al prezzo di restare naufraghi e andare alla deriva come novelli Klaus Kinski nel finale stupendo, visionario, leggendario ed epico del capolavoro “Aguirre furore di Dio” di Werner Herzog. Anse, non anse, spiaggioni, rive alte che si gettano a precipizio. Dopo la solita spiaggia di naturisti, il fiume diventa un deserto azzurro, dove solo la natura, e non più l’Uomo, detta legge e che ci fa sentire davvero piccoli, come libellule che cercano di gareggiare in velocità con noi. La solita barca ormeggiata, il solito barcé con il tizio seduto a bordo sotto un ombrellone, che ci guarda passare guardingo e diffidente, stesso personaggio e honky-tonky di questa bassa pavese, che incontro ogni volta allo stesso punto esatto. Non saluta, non fa alcun gesto. Ci guarda e basta. Sembra una comparsa quasi inquietante del film “Un tranquillo week-end di paura” di John Boorman, e io e Juri siamo gli sfortunati protagonisti che si avventurano in una natura genuina, incontaminata, bella ma allo stesso tempo cruda e quasi paurosa. Il medesimo senso di solitudine e di impotenza l’ho provato soltanto nel deserto di Merzouga, in Marocco, quando in sella a un dromedario scollinai dune di sabbia gigantesche quanto montagne, senza mai intravedere il traguardo del mio viaggio, sotto un sole spietato come quello di oggi. Acqua, acqua, acqua, sponde lontane e distanti, irraggiungibili, un fiume Po dritto davanti a noi che sembra non finire mai. Colline dell’Oltrepò, belle, carine, da cartolina: mi ricordano che la "stretta di Stradella" è lì davanti a noi, unico punto di riferimento, meglio della stella polare in un cielo di un universo piatto. Ma resta là distante e intangibile. Io e Juri siamo soli in questo oceano azzurro che scorre univocamente da ovest a est. Spiaggioni deserti da una parte, sponde rialzate e boscose dall’altra. Probabilmente subito dopo l’isolotto di Buffalora abbiamo varcato un passaggio ultra-dimensionale e ora stiamo esplorando per la prima volta un mondo alieno e distante migliaia di anni luce.
    Il ronzio incessante e meccanico del motore ci tiene svegli da questi incubi, mentre il sole si fa più feroce col passare del tempo. Ansa di Sostegno, campanile del piccolo borgo di Portalbera all’orizzonte, ponte di Spessa che si staglia sulla linea dell’acqua manco fosse la mitica “India” avvistata dalle caravelle di Cristoforo Colombo. Arriviamo stremati ed esausti, ma al piccolo molo del ristorante “AvamPosto sul Grande Fiume” non c’è modo di attraccare, soprattutto per un neofita come me. Meglio ripiegare un po’ più giù, appena prima del ponte della provinciale 199, dove c’è l’attracco della Motonave Beatrice, l’unica in tutta la provincia di Pavia che offre un po’ di turismo fluviale: nei mesi estivi e invernali (per via del basso livello fluviale) è attraccata più a valle, cioè a Parpanese. Qui c’è soltanto in primavera e in autunno e lascia libera l'attracco. Il mio primo vero e solitario attracco riesce abbastanza bene, diciamo senza particolari traumi (o danni irreversibili): perché un conto è manovrare una barca in mezzo al fiume come una macchinina dell'autopista in mezzo al nulla, un conto è riuscire a non sfracellarsi contro un molo. Mentre io manovro fra marcia, folle e retro, Juri abilmente aggancia la corda, fa nodi e usa i moschetti a disposizione per fissare bene l'imbarcazione. Alla fine ci riesce in uno spreco di corde, nodi, moschettoni e bestemmie. Raggiunta la riva, scarpiniamo a piedi fino alla trattoria “AvamPosto”.
    Dopo la lauta mangiata si ritorna alla barca, ma con grande sorpresa il motore non ne vuole sapere di mettersi in moto. Ci proviamo e ci riproviamo, ma alla fine ci arrendiamo come due naufraghi dispersi dopo una tempesta. Peccato che di tempeste non ce ne siano, ma ci sia invece un gran caldo e un gran sole che di noi due non vuole avere nessuna pietà. Chiamiamo chiunque: Sergio Barca, il proprietario dell’imbarcadero di “Becca Beach”, che si dimostra disponibile a raggiungerci in auto e dare un’occhiata al motore; Nico, che sta in vacanza al fresco da qualche parte in Sud Italia, ma che non risponde; un certo Delmo, che lavora da quelle parti i campi della "Lousiana Pavese", che c’ha una barca ormeggiata ad Arena Po e che se smettesse di lavorare potrebbe venire a trainarci fino alla Becca, ma vorrebbe in cambio ben 80 euro. Intanto il tempo passa, e io e Juri vinti dallo sfinimento, a turno, ci immergiamo nelle acque del Po. Il fiume è profondo in questo punto, l’ecoscandaglio segna almeno 5 metri di profondità, così per non farci trascinare via dalla corrente ci immergiamo stando attaccati agli scalini come cozze agli scogli: la corrente è spietata, tira forte e peggio di un uragano, una sola leggerezza e saremmo a turno trascinati via e lontani sia dall’attracco che dalla barca, magari verso uno di quei mulinelli che impietosamente sotto il ponte di cemento poco più avanti risucchiano giù tutto ciò che passa…
    Resistiamo audaci, sia al caldo che alla tentazione di lasciarci andare, quando Nico mi richiama e mi da istruzioni su come far ripartire l’affare. Allora, per l'ennesima volta ripeto al mio cervello che la leva del cambio deve essere in folle, l'accelleratore al minimo, e il soffietto della tanica di benzina aperto. Forse l'ho capito. Magia meccanica. Il motore si accende. Molliamo gli ormeggi e ci rimettiamo in navigazione. Risaliamo il fiume molto più lentamente, con pescatori sulla sponda sinistra che ci osservano come redneck usciti da un romanzo di Joe Lansdale, barche che ci sorpassano con a bordo sorridenti abbronzati che si salutano, e il Ponte della Becca che non arriva mai, stavolta vera agognata oasi in mezzo a un deserto senza fine.
    Il nostro viaggio finisce davanti alle case galleggianti di Ponte Becca, quando il motore improvvisamente si spegne di colpo. Eppure la benzina ce n'è ancora, anche se non moltissima. Ci viene a recuperare un amico di Sergio Barca, che ci traina per poche centinaia di metri fino all’imbarcadero. Qui c’è Sergio, prende la Glastrom come se fosse una mollica di pane che galleggia nel piatto di sugo di pomodoro, scoperchia il vano motore, fa una piccola magia con le sue mani e il 25 cavalli torna in azione più incazzato che mai. Ci dice che il carburatore era un po’ sporco. Ci dice che bisognerebbe pulirlo. Ci dice che un 50 cavalli tenuto bene sarebbe meglio, soprattutto per fare quel più grande viaggio che abbiamo in mente da tempo.

    CAPITOLO 4.
    Un sabato mattina di settembre. Al bar Mary Flowers di Castelletto Po, dopo una colazione veloce, io e Juri ci ritroviamo senza batteria né olio nautico. La batteria serve per azionare la pompa satena per svuotare l'interno della barca dall’acqua accumulata sul fondo dalle abbondanti piogge delle scorse settimane. Serve anche per far funzionare l’ecoscandaglio, indispensabile Bibbia fluviale per noi principianti che ci guida in mezzo a ogni corso d’acqua evitandoci di andare a sbattere con l’elica contro fondali troppo bassi e insidiosi.
    «C’avete una spanna d’acqua a bordo – ci dice Sergio Barca qualche minuto più tardi nella sua officina a Tornello – Perché non vi prendete una di quelle pompe automatiche che ve la svuotano da sole? Altrimenti dovete venire a controllarla ogni giorno!»
    Ha un’officina lungo la statale Bronese che sembra uscita da un film nordamericano. Quando oltrepassi il suo cancello entri in una dimensione parallela, dove ti immergi già nel favoloso mondo di fiume che io e Juri stiamo iniziando ad amare sempre di più. Dopo un piccolo giardino, popolato da tre cani affettuosi e giocherelloni, Sergio ci aspetta sull’uscio del suo capannone, adibito a officina. Al suo interno c’è di tutto, un microcosmo di barche, motoscafi, barcé, perfino moto acquatiche, pezzi di ricambio e tutto ciò che da un rottame lui è capace di trasformarlo nella lancia più veloce e cazzuta di tutto il fiume Po da qui fino alla foce in Adriatico.
    «Posso prestarvi questa! – dice Sergio, mostrandoci una batteria da motore praticamente nuova – Ma mi raccomando, dovete riconsegnarmela e averne molta cura!»
    Promettiamo solennemente.
    Sta già fumando la terza o quarta sigaretta da quando siamo lì. Afferriamo il flacone di olio nautico che ci vende, la batteria e risaliti in auto ci dirigiamo oltre il Ponte della Becca verso l’imbarcadero Idrometro. Scarichiamo tutto l’occorrente, compreso la tanica di benzina già riempita al distributore della Total di Moranda e già miscelato nella giusta misura (una tacca di olio nautico per ogni 5 litri di benzina).
    Quando scendiamo al molo - due banchine con galleggianti e collegate alla terraferma da due rampe di scale - fa molto caldo e il cielo promette in maniera bugiarda una bella giornata di sole: non sarà così.
    Non c’è nessuno a parte me e Juri: gran parte delle imbarcazioni sono ormeggiate silenziosamente lungo la corrente del Ticino. L’acqua è molto cresciuta rispetto al mese scorso. L’ultima volta potevo tuffarmi lì e toccare il fondo restando a mezzo busto fuori. Oggi il fondale non si vede, segno inequivocabile che farsi un bagno è molto sconsigliato e che dovremmo fare le operazioni di disancoraggio unicamente stando sull’imbarcazione.
    Con il motore fuori bordo a due tempi non ho mai avuto un ottimo rapporto, lo ammetto. Io ci provo e ci riprovo, ma sono come quelle antipatie reciproche a pelle. Metterli in moto può sembrare facile come accendere un comunissimo decespugliatore, ma in realtà non è così. Io e Juri impieghiamo qualcosa come 45 minuti di tentativi, riprove, bestemmie, imprecazioni e io devo perfino calarmi in acqua profonda, tenendomi aggrappato alla scaletta di poppa per evitare che la corrente, oggi molto forte, mi trascini via, per assicurarmi che il motore sia a posto.
    Ogni tentativo di farlo partire è simile a una preghiera di una forte nevicata a luglio in mezzo al Sahara.
    Niente da fare.
    A un certo punto, però, il 25 cavalli emette un piccolo scoppio ben promettente.
    «Ora dovrebbe partire!» dico con la stessa sicurezza di abbuffarsi di una volpe che si è appena intrufolata in un pollaio.
    Peccato che noi siamo volpi che hanno trovato un pollaio vuoto e desolato.
    Il motore non dà più cenni di vita.
    Tira l’aria, togli l’aria, togli il coperchio, togli il tubo che dal serbatoio va al motore, fai uscire la benzina che sicuramente ha invasato gli ingranaggi, bisogna asciugare le candele, dove cazzo sono ‘ste candele, e quanto starei meglio a sgolarmi una birra a Bastida da Vito, magari provandoci con la sua bella cameriera di turno, piuttosto che stare sotto questo sole caldo a imprecare contro un motore che non vuole saperne di mettersi in moto.
    Anche oggi, sicuramente, ho commesso degli errori: la leva dell’acceleratore non deve essere sul massimo. Continuiamo come cercando di rianimare un cadavere morto da una quindicina di giorni fa. Sul molo di fronte c’è un barcaiolo, sicuramente più esperto di noi: ci da i consigli giusti per il colpo di grazia.
    «Non tirate più l'aria -ci raccomanda- se l’avete già tirata ora il motore dovrebbe partire da solo!»
    Sono come parole magiche, che solo un Signore del Fiume come lui poteva pronunciare per destare dal letargo profondo la nostra Glastron. Un tiro, due tiri, tre tiri e messa in moto.
    Solite posizioni (Juri sdraiato a prua, mentre io al volante a poppa) e si salpa. Questa volta decidiamo di tradire il nostro amato Mississipi Padano - fiume Po e di risalire il “Missouri” - Ticino, almeno fino alla città di Pavia. Può sembrare un tragitto corto dal Ponte della Becca fino in città, ma dopo solo poche uscite ho già capito una cosa molto importante: le distanze via fiume sono completamente diverse da quelle terrestri. In automobile ci impiegherei pochi minuti per arrivare alla svincolo di Pavia Est, uscire dalla tangenzialina, fare la rotonda, fermarsi al primo bar del quartiere San Pietro in Verzolo, ordinare una birra, sorseggiarla al tavolino sul marciapiede lungo viale Cremona e scrivendo su ogni status di social esistente che sto bevendo una birra a Pavia, mentre poco fa ero in mezzo al Ponte della Becca. Niente di tutto questo è paragonabile via fiume. L’ansa di località Boschi, ma soprattutto quella di Belvedere, allungano il tragitto fluviale rispetto a quello via terra; inoltre, risalire il fiume controcorrente, o “in salita”, dilata ancora di più il rapporto fra tempo e spazio.
    Notiamo subito che il Ticino, a differenza del più grande Po, è meno selvaggio, pur conservando ugualmente quel fascino di natura incontaminata. Rigogliosi boschi di pioppi fioriscono su entrambe le sponde, anche se ci sono più segni della presenza umana: case galleggianti, chiatte, piccole imbarcazioni e gruppetti sparsi di pescatori (che ci adocchiano come se stessimo pilotando un’astronave in mezzo al fiume) non ci addentrano mai durante il percorso in quella sensazione di “Spazio Profondo” che invece trasmette il fiume Po subito dopo la Becca in direzione di Portalbera. L’ecoscandaglio non funziona, perciò navighiamo “a vista”, nel senso di stare ben attenti al fondo: appena lo intravediamo stagliarsi dall’acqua a occhi nudi rallento subito il motore e aziono la marcia a posizione folle, in modo che l’elica si sganci e si alzi fuori acqua, onde evitare di toccare sotto e danneggiarsi. Come dicevo prima, fortunatamente le piogge delle scorse settimane hanno innalzato il livello fluviale, così tutto sommato si naviga bene. Dopo le due molto caratteristiche house-boat di Belvedere (sponda sinistra) raggiungiamo la prima importante ansa, una curva a gomito dove proprio al suo interno sorge la spiaggia sabbiosa di Travacò. C’è ormeggiato un gommone e sulla riva quattro ragazzi si stanno godendo un sabato mattina di ozio e relax. Riconosco sia l’imbarcazione, che il ragazzo con barba a pizzetto: è Johnny Cason, ci siamo conosciuti una quindicina d’anni fa, quando lavoravamo assieme all’autolavaggio di camion e pullman dell’ASM di Pavia. Non ci siamo più visti per una vita, poi il mese scorso, per caso, ci siamo beccati all’imbarcadero e abbiamo scoperto di essere amanti del fiume. Ci salutiamo a lungo, mentre la nostra bass-boat sfreccia inesorabile risalendo il corso d’acqua azzurrognolo come un cielo di fine estate. Dopo l’ansa navighiamo in direzione sud-ovest per un breve tratto, almeno fino all’imbarcadero Boschi (sponda destra). C’è un molo a cui sono ormeggiate un po’ di imbarcazioni, mentre alcune persone sulla sponda in alto, radunate accanto a una baracca che sembra essere un bar, ci osservano stupite e divertite.
    Incrociamo un barcé a motore proveniente da Pavia e eseguiamo la regola non scritta di scambiarci i saluti. Dopo pochi secondi quella barca sparisce inghiottita dall’ansa di Boschi, mentre davanti a noi si apre una prospettiva favolosa: fra le rive boscose del fiume in lontananza si distingue nitidamente il gasdotto di zona “Confluente” e subito dopo, sullo sfondo, si staglia l’alto Duomo di Pavia con le torri e i palazzi del centro storico. Il colpo d’occhio è davvero notevole: Pavia vista da questa angolazione sembra una città completamente diversa da quella conosciuta.
    Avvicinandoci, mi accorgo che la città riserva anche scorci che non ho mai visto e che non avrei mai immaginato in un posto dove la mia supponenza credeva di conoscere come le tasche dei pantaloni. Le baracche di legno alla fine di viale Venezia che si affacciano sul fiume come piccole favelas sudamericane; la cascata del Naviglio Pavese che forma un piccolo laghetto ornato da alti alberi - il simpatico quadretto è completato da una barca ormeggiata e da un tizio seduto lungo il fiume che contempla il nostro passaggio; il maestoso Idroscalo, o meglio ciò che ne resta, che si erge con i suoi giganteschi piloni sul fiume fino ad arrivare all’altezza di via Lungo Ticino Sforza, che scorre in cima alle mura esterne di Porta Nuova. Dagli anni Venti agli anni Quaranta dello scorso secolo il possente edificio fu un importante scalo della linea passeggeri di idrovolanti (biplani a motore unico) Torino – Pavia – Venzia - Trieste. Purtroppo, nel corso degli anni, Pavia è stata capace di perdere molte cose legate al suo fiume: il vecchio idroscalo, lo storico moto-raid Pavia-Venezia, posti che noleggiano kayak e gran parte della passione fluviale.
    Fortunatamente non tutta. Dall’altra parte del fiume, sulla sponda destra, le case basse e colorate di Borgo Ticino sembrano un allegro paese fluviale a sé stante. Il cupolone del Duomo, il Ponte Coperto, i moli, gli imbarcaderi, il Borgo Basso, la statua della Lavandaia, il Bar Imbarcadero di Porta Damiani - che sembra un bar galleggiante su una sorta di “Senna” pavese: Pavia vista da qua è di uno schianto letale e di una bellezza da perderci la testa. Anche se inizia a piovere, a fare brutto, a tirare vento freddo e davanti a te hai improvvisamente le temibili correnti delle arcate del Ponte Coperto.
    Nel corso degli anni, e anche in tempi molto recenti, qui sono morte annegate tante persone. So che da qualche parte laggiù, sul fondo del fiume, c’è la statua del “Cristo del Fiume”: alta 1 metro e mezzo, è una sorta di benedizione per la gente di fiume, depositata laggiù nel lontano 1998. Da quegli anni ormai lontani riaffiorano i ricordi di quando, poco più che ventenne, assieme ad alcuni amici noleggiavano canoe proprio al Bar Imbarcadero (oggi l’unico imbarcadero in zona dove poter pagaiare sulle acque di fiume si trova all’Oasi Olona di San Zenone Po) e risalivamo il Ticino, affrontando le forti correnti del Ponte Coperto. A rendere più insidiosa l’attraversata delle sue alte arcate sono anche i resti dell’antico Ponte Romano, che sorge leggermente dopo, e che aiutano la formazione di mulinelli e dei temutissimi vortici. Man mano che ci avviciniamo al caratteristico ponte, ci ammalia la sua bellezza ma ci sorprende il timore di non riuscire a oltrepassare la fatidica seconda arcata sulla destra.
    «Devi prendere la seconda arcata – mi aveva detto Fabian proprio ieri in ospedale, davanti agli uffici dove lavoro, – Vai sotto la seconda arcata, esattamente in centro e poi quando ci sei sotto dai tutta birra!»
    A parole sembrava una bazzecola, una di quelle imprese da dilettanti da raccontare poi agli amici del bar la sera stessa, inserendo con la fantasia, ovviamente, di aver superato difficoltà enormi come demoni subacquei, dinosauri dell’era cretacea e il dio Nettuno in persona. Invece, quando ci troviamo proprio sotto alla seconda arcata le cose sono ben diverse. Piove, tira vento, il fondale è basso (passa da otto metri a meno di un metro e mezzo in un batter di ciglia), c’è rischio di toccare con l’elica e la corrente è talmente forte e intensa che almeno un paio di volte rischio di perdere il controllo della barca e temo che questa possa girarsi all’improvviso e fare un terribile testa-coda che ci sbalzi chissà dove.
    «Quando ci sei dai tutta birra!» mi ricordo le parole dell'amico esperto.
    Anche se in quel momento non credo sia la cosa migliore, accetto il consiglio. Acceleratore giù al massimo e dritto verso i gorghi del sotto ponte. Contrariamente a ogni mio timore, la barca non solo si stabilizza ma passa indenne il (credo) maggior punto critico del Ticino pavese. Sbuchiamo dall’altra parte, soddisfatti quanto increduli di avercela fatta. Ma non finisce qui. Dopo il breve tratto fra il verdeggiane Parco Vul e Lungo Ticino Visconti c’è già l’altro ponte, il "Ponte dell’Impero". Raggiro a sinistra il grosso isolotto di sabbia formatosi a metà corso d’acqua. Uno stormo di uccelli sta lì a terra, incurante della pioggia sempre più fitta, e i volativi sembrano tutti fissarci come spettatori per vedere se riusciremo a passare anche il secondo ostacolo. Visto che mi sono allargato verso la sponda destra per girare al largo dal riaffioramento, punto verso la terza arcata, anche perché poco fa abbiamo incrociato una lancia che è passata proprio là sotto. Cerco di memorizzare il punto esatto dove l’ho vista sbucare e mi dirigo dritto in quella parte, con un occhio però sempre puntato al fondo del fiume. E’ già più difficile del Ponte Coperto: subito dopo l’arcata del Ponte di viale Libertà c’è un secondo isolotto che emerge poco distante dal pilone, per cui una volta sotto il ponte bisogna virare subito a destra e riportandosi a centro fiume, dove dovrebbe scorrere il cosiddetto “canale” . Niente di più falso, ovviamente: il fondo è talmente basso e visibile a occhio nudo, che più di una volta mi tocca rallentare, mettere in folle, arrestare e avanzare a tentoni. Tutto ciò sotto un’acquazzone che nessun telegiornale o sito meteorologico avrebbe mai previsto neppure sotto atroci torture. Mi riparo solo un cappello, una maglietta bianca e un paio di bermuda da bagno. Juri è più fortunato: ha un giubottino leggero che s’infila di gran carriera. Non servono a molto, ma avanziamo ugualmente sfidando anche le intemperie.
    Il tratto lungo via Montebello procede così, almeno fino al ponte della Ferrovia, vera e propria colonna d’Ercole inattraversabile, oltre le quali pare non ci sia (ancora) concesso andare oltre. Le provo di ogni ma non ce la faccio, prima vera bandiera bianca della mia vita da barcaiolo. Abbiamo sfidato e sopportato il caldo atroce dei mesi estivi, il restare alla deriva quella volta che il motore ci ha lasciato in panne in mezzo al fiume Po nei pressi di Spessa, e la benzina finita a poche centinaia di metri dall’imbarcadero. A tutto siamo riusciti in un modo o nell’altro a ripartire, questa volta non ce la faccio. Il ponte della ferrovia di Pavia è un mostro di cemento e di acciaio ancora troppo forte per un giocatore inesperto come me: è un po’ come quei vecchi videogiochi da bar che andavano a cinquecento lire e che, soprattutto negli “arcade”, avanzavi di livello in livello, ma alla fine di ognuno c’era, appunto, un “mostro” da affrontare e sconfiggere. Ovviamente, livello dopo livello i “mostri” e i vari nemici diventavano sempre più difficili, finché non ne trovati uno invincibile.
    Ha due arcate principali larghe al centro e due strette ai lati. Su quella più a destra è impossibile passare: la confluenza del Navigliaccio e lo stretto pertugio con il resto del fiume non permetterebbero neppure a una barchetta di carta di scendere. Idem quell’altra più esterna, sponda Parco del Ticino: fra la riva e il pilone si sono ammucchiate delle ramaglie che impediscono di proseguire di lì, come se ci fosse un muro di legno. Restano le due centrali. Subito dopo la prima, quella più a sinistra, c’è un riaffioramento evidentissimo: il fondo risale talmente a livello formando piccole rocce e sassi che spuntano fuori qua e là, e quindi è impossibile proseguire. Resta solo la seconda arcata: ci provo, ma la corrente forte e il fondale talmente basso che si può quasi toccare con la mano sporgendosi dalla barca più di una volta non mi fanno avanzare. Sballottati una, due e tre volte, prima forzando l’avanzata ma subito dopo trascinati indietro, decido di arrendermi. Con la marcia in folle la corrente per qualche secondo ci trascina lentamente via, mentre restiamo impotenti a fissare quell’ostacolo che non siamo riusciti a sconfiggere.
    Rivincita col ponte ferroviario già fissata per la prossima volta: non si molla, supereremo quell’ostacolo, anche quello della tangenziale e approderemo alla Casa sul Fiume per prenderci una birra al Bar del Turista. Rimetto in marcia, in direzione sud.
    Scendiamo il fiume, donde siamo venuti, senza particolari problemi, a parte sotto il Ponte Coperto dove avanziamo cautamente, ma data la forte corrente che si spinge sotto, dopo un po’ ci lasciamo andare a tutta benzina sbucando indenni dall’altra parte. Man mano che la discesa prosegue verso la Becca la pioggia diminuisce lentamente e il cielo comincia ad aprirsi.
    Quando arriviamo all’Idrometro e riesco a ormeggiare in maniera quasi impeccabile, il sole è rispuntato sopra di noi e emana nuovamente quel tipico caldo tiepido settembrino. Ormeggiamo il mezzo, scarichiamo tutto ciò che dobbiamo scaricare e ci avviamo ugualmente soddisfatti della bella avventura verso l’automobile, anche se – ovviamente – la storia del ponte della ferrovia mi roderà per un bel po’.
    Dato che si è fatto tardi e che ormai i ristoranti sono tutti chiusi, decidiamo di dirigerci nell’unico posto aperto che faccia da mangiare alle tre di pomeriggio: ovvero da Bysalman, a San Martino, un ristorante turco (definirlo un kebabbaro è eccessivamente riduttivo e fuorviante), aperto 24 ore al giorno, che offre squisite pietanze culinarie, sia ottomane che di tutto il Sud-Est Europeo. E' anche uno dei pochissimi locali in Pavia e circondario dove si può bere il mio amato Rakì (un distillato d’uve molto diffuso nei Balcani e in Turchia), bevanda simbolo e nostalgica di tutti i mie viaggi in Europa Orientale e oltre. Ci accomodiamo fuori, su un tavolino praticamente davanti all’ingresso del locale e non molto distante dal traffico della Statale 35. Ordiniamo due grigliate di pollo, con riso, bulgur, verdure, spezie e salse varie, birra in bottiglia e l’immancabile Rakì. Ci serve una bellissima cameriera straniera.
    «Stamattina in mezzo al fiume come in Louisiana, oggi pomeriggio a pranzare in un parcheggio lungo la Statale come in Texas!» afferma scherzando Juri.
    «Siamo proprio due redneck padani!» rincaro io la dose.
    Le nuvole si sono completamente diradate e il sole caldo di fine settembre adesso batte più forte sulle vite e sulle storie della Louisiana Pavese.

    CAPITOLO 5.
    Io e Nico ci rivediamo solo a fine ottobre, dopo alcune uscite solitarie in barca lungo il fiume Ticino fino a Pavia, quando mi sono rispinto fino alle mie ormai personalissime colonne d’Ercole rappresentate dai piloni del ponte della ferrovia. Ci ho riprovato altre due volte a superare quell’insormontabile ostacolo, ma non c’è stato nulla da fare. Neppure le abbondanti piogge di metà mese sono venute in mio soccorso. Il “Missouri pavese” e il “Mississippi padano” – come li soprannomino io – sono diventati fiumi grossi e profondi, lontane ombre di com’erano quest’estate, stretti, asciutti e con punti dove potevi scendere dalla barca e guadare tranquillamente. Nonostante l'innalzamento del livello delle acque, tuttavia, passare sotto il ponte della ferrovia è rimasta un’utopia. Ogni volta che arrivo in quei paraggi il fondale del Ticino appare a vista d’occhio e il rischio di toccare con l’elica del motore è troppo grande.
    E’ un sabato pomeriggio tiepido e tipicamente autunnale. Nico è già a bordo da questa mattina, mentre io gli ho dato appuntamento al molo del Ponte della Becca. Quando arrivo lo trovo ormeggiato al primo pontile del Centro Nautico, intento nella sua più grande passione: pescare alborelle. Continua come una macchina a lanciare la canna, tirare su pesci, gettarli in un un grosso secchio e poi rilanciare di nuovo la lenza. Sembra una catena di montaggio.
    Soliti convenevoli, poi salgo a bordo e si parte. Direzione grande Fiume, scendendo verso est. Superate le solite caratteristiche case galleggianti sulla sinistra e la grande isola fluviale proprio di fronte, raggiungiamo la confluenza fra Po e Ticino, anche se le due correnti scivolano via parallele e distinte ancora per parecchie miglia. La nostra sponda inizia a farsi alta e boscosa. E’ un gigantesco bosco di pioppi che ci accompagna in una natura davvero incontaminata. In certi punti la riva è a strapiombo sull’acqua, molto probabilmente perché il Po lì ha “mangiato” parecchia sponda. L’altra riva, dalla parte opposta, sembra lontana un miraggio. Un gigantesco lago lungo e stretto, dove ogni tanto qualche altro motoscafo sfreccia in direzione contraria alla nostra.
    «Dove andiamo oggi?» chiedo all’amico pescatore, che sta alla guida. Io come al solito mi sono seduto sulla parte piatta della prua.
    «Più avanti a un paio di chilometri dal ponte della Becca c’è un posto che è pieno di lucioperche, di cui uno mi è già scappato stamattina!»
    I prossimi pesci e paesaggi non ci scapperanno.
    Arriviamo in prossimità della seconda isoletta, all’altezza dell’ansa di Buffalora. Ci avviciniamo nei pressi sulla sua punta orientale, dove uno stretto braccio di fiume scorre alle sue spalle e qui si rimette con il corso principale. Nico spegne il motore e mi ordina di buttare l’ancora. Fatto. Galleggiamo su oltre otto metri di profondità, tanto segna il nostro inseparabile ecoscandaglio.
    Nico cambia canna e prende quella ABU da mt. 1,90 da casting con un mulinello Shimano Stradic 3000, mentre a me molla la Katana da 4 metri, perché insiste nel volermi trasmettere la sua passione della pesca. Mi chiede se ho mai pescato in vita mia. Mi affiorano in testa ricordi da ragazzino quando seguivo mio zio Teto in qualche lanca dell’Oltrepò. Ma sono ricordi lontani e confusi. Sicuramente in fiume è la primissima volta in vita mia.
    I primi lanci vanno a vuoto, poi magicamente il galleggiante inizia a vibrare, tiro su e la mia prima alborella ha abboccato all’amo. Ci pensa Nico a toglierla dall’amo, gettarla nel secchio del pescato e a infilarci un nuovo cagnotto (tiene un sacchetti di vermi in una tasca dei pantaloni). Per la pesca ai lucioperca, invece, l'esca è più complessa. Usa alborelle vere e proprie, imbrigliandole in una complessa gabbietta. Mentre pescare alborelle è davvero facile - se ti trovi in un posto ricco di questi pesci -, tipo sparare al tiro a segno nei luna park di paese, cercare di prendere i perca non lo è affatto. Ci vuole tempo, pazienza e buoni rimendi alle delusioni di sentirli che si avvicinano alla tua esca, la mangiucchiano un po' ma, furbamente, non abboccano.
    A metà pomeriggio risaliamo l'ancora e ripartiamo. Ci spostiamo leggermente verso est, stavolta guido io e spingo la nostra bass-boat fino all’ansa che c’è fra San Cipriano e Sostegno. Ancoriamo lì qualche minuto. L’acqua è abbastanza profonda, Nico è sicuro che qui potrebbe pescare quello che cerca. Dal mio canto non tiro su manco un alborella, il che potrebbe essere un buon segno, ovvero non ci sono alborelle perché magari queste acque pullulano di feroci predatori. Siamo nella parte settentrionale del fiume, dove l’acqua è chiara perché risente ancora dell’immissario Ticino e dove i pesci piccoli vengono predati in tempo zero. Nico mi spiega che dove eravamo prima era ricco di alborelle perché le acque del Po, essendo torbide, rappresentavano un buon riparo dai predatori. Qui, dove l’acqua è più chiara e limpida, invece, le alborelle vengono mangiate dai carnivori. Come dai più temibili pesci siluro.
    Quando alla canna di Nico abbocca qualcosa sono attimi lunghi ed eccitanti. La lotta fra il pescatore e il pesce di fiume non è così scontata come può apparire, ma è un lungo gioco di strategia, di tensione e di pazienza. Dai mulinello, tira mulinello, alza la canna, allenta la canna. L’unica cosa che io posso fare è attendere impazientemente l’esito del duello, cambiando di tanto in tanto l’acqua al secchio delle alborelle.
    Alla fine quando il gioco sembra fatto e Nico sta tirando su qualcosa ci accorgiamo del peggio. Dalle oscurità del fondo del fiume inizia a intravedersi una strana e grossa sagoma scura.
    «Non è un perca…. - bofonchia l’amico pescatore concitato e concentrato come un esperto capitano Achab del fiume Po - E’ un pesce siluro!»
    Per pochi secondi una grossa stazza appare poco davanti alla prua dell’imbarcazione. Nonostante non sia sicuramente in età adulta, le dimensioni del mostruoso pesce sono comunque impressionanti. I suoi occhi sono i primi ad apparire dalle torbide profondità delle acque. Più che occhi sembrano due tizzoni accesi colorati di un grigio tenebra che quasi si confondono con il fondale, le sue squame paiono setole di una creatura aliena degli abissi del fiume, la sua bocca quella di un drago acquatico pronto a zompare sulla barca e fare di noi poveri brandelli di carne. E’ un gigantesco demone degli inferni subacquei, che appare alla nostra vista solo pochi secondi, appigliato alla nostra imbarcazione soltanto da un sottile filo di nylon invisibile. Fa quasi per venirci addosso, è gigantesco e lungo quasi come la nostra barca, con due pinne ai lati che sembrano ingrandirsi fin quasi a diventare braccia scheletriche atte ad afferrarci e a trascinarsi con lui. Il tutto si svolge troppo in fretta per dare sufficiente tempo ai miei sogni a occhi aperti di materializzarsi. La belva del Po con con un colpo secco di frusta strappa la lenza di colpo e in una frazione di secondo si inabissa nell’oscuro mondo dal quale stava emergendo. Nico resta soltanto con la canna da pesca in mano e la lenza dondolante, mentre io sono basito e a bocca a aperta. La lotta con il mostruoso essere fluviale mi ha reso edotto che il fiume non è soltanto quella poetica e pacata natura incontaminata che fino ad adesso avevo immaginato.
    «Mannaggia, mi ha fregato all'ultimo! Stavo per tirarlo su!»
    Nel caso ci fosse comunque riuscito (e mancava davvero poco) non ho idea di dove l’avremmo messo sulla nostra Glastrom di quasi 5 metri. Probabilmente disteso per il lungo e immobilizzato con la corda dell’ancora per tenere a freno la sua bramosia di divorarci.
    Appurato che la zona è infestata da pesci-siluro, decidiamo di ritornare all’ansa di Buffalora. Il pomeriggio sta volgendo al termine e una volta raggiunta l'isoletta restiamo al suo largo ancora una mezz’oretta, più o meno nel punto dove eravamo prima. Io riempio il secchio di alborelle, mentre Nico riesce a tirare su un perca bello grosso.
    Il viaggio di ritorno verso il ponte della Becca resterà uno dei più belli di queste prime uscite in barca. Il sole ormai volge al tramonto, l’enorme palla infuocata è scesa dietro gli alberi della sponda meridionale, e noi corriamo su uno specchio d’acqua incantato che riflette le nuove in cielo. Non c’è nessuno in giro a parte noi e adesso il fiume Po sembra davvero un lungo mare inesplorato. Navighiamo fra file di boschi dove non vi è alcuna traccia di paesi, città, né civiltà umana. Potremmo essere fra Tornello e Belgioioso, come lungo un fiume di un pianeta di un altro sistema solare. Tronchi di albero, ramaglie, tutto galleggia e viene trascinato dal fiume, ma noi schiviamo e andiamo oltre, risalendo la corrente fino al gigantesco ponte di ferro a struttura reticolare che unisce da sponda a sponda proprio alla confluenza fra Po e Ticino. E quando esso ci appare dietro l’ansa di Ospedaletto ci accoglie in tutto il suo stupore.
    Il cielo si è tinto di rosa e anche l’acqua dei due fiumi. Il sole ora è lì, appena sopra il gigante d’acciaio, che si specchia con una lunga striscia di fuoco sulle acque calme e pacate. Il mio “Mississippi”. La mia “Lousiana”. Il mio senso di Libertà.
    Ho tutto quello che mi serve in questa poetica immagine che ci accompagna fino ai moli del centro nautico del Ponte della Becca e al lungo inverno che ci attende. Con una sola certezza. La prossima primavera il mio Mississippi sarà sempre qua ad aspettarmi con nuove e grandi avventure da vivere e raccontare.


    In memoria di Carlo Moretto (5.8.2020).
    Ci troveremo ancora in un'altra vita, una sera d'estate a Torino, a parlare di noi, degli altri, del Toro Calcio, del mondo futuro e della vita che verrà. RIP ❤

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